Il nuovo rapporto economico dell'OCSE sull'Italia è stato presentato pochi giorni fa, in una conferenza stampa ufficiale al ministero dell'economia. Secondo gli economisti di Parigi, nei prossimi due anni l'economia italiana si terrà in piedi ma certamente non brillerà. Il rapporto prevede una crescita di appena 0,4 per cento nel 2015 e 1,3 per cento nel 2016.

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Il segretario generale Angel Gurria, forse per onorare l'ospitalità, ha deciso di correggere seduta stante il dato del 2015. Vi ha aggiunto "a voce" due decimi di punto portandolo dal misero 0,4 per cento allo 0,6 per cento. È pur sempre una cosa modesta, ma un po' più distante dallo zero. Quanto basta, insomma, per risparmiare l'imbarazzo al nostro governo e a Padoan, ministro dell'economia ed ex-capo economista dell'OCSE. È stato come quando a scuola prendevi un cinque. A volte l'insegnante, per incoraggiarti (o per non vederti tornare al banco con il muso), te lo cambiava in "cinque più". Poco importa, ovviamente, se quella previsione di crescita dello 0,4 per cento era stata rilasciata appena il giorno prima, e si presume dopo un lavoro attento da parte degli analisti. Le esigenze della comunicazione politica sono da tempo prioritarie rispetto ai contenuti dell'analisi.

Abbiamo un governo che detta una linea iper-ottimista. Alla faccia delle critiche rivolte a Berlusconi e ai "ristoranti pieni" di cui osò parlare quando era a Palazzo Chigi. A questa linea, buona parte dei soggetti istituzionali e delle rappresentanze hanno trovano conveniente adeguarsi. Ed è normale che centri studi e osservatori legati a questi stessi soggetti e interessi, invece di esprimere punti di vista indipendenti, si limitano a fare cassa di risonanza alla voce del padrone. Se nemmeno per un organismo internazionale indipendente come l'OCSE è un problema regalare a Renzi due decimali di crescita, figuriamoci se è un problema per gli economisti e gli esperti nostrani.

Decimali parte, lo scenario del rapporto OCSE ridimensiona l'euforia di alcune previsioni, pubblicate qualche settimana fa in Italia, secondo le quali il calo del petrolio, il quantitative easing e la svalutazione dell'euro avrebbero accelerato la nostra crescita di oltre un punto e mezzo. Davanti al nuovo scenario dell'OCSE è chiaro che quel punto e mezzo in più misura una crescita solo immaginaria. Di illusioni legate al calo del prezzo del petrolio e al Quantitative Easing mi sono già occupato nelle scorse settimane. Adesso tocca alla svalutazione dell'euro e ai presunti effetti di rilancio della crescita che ne dovrebbero derivare.

La storia è sempre la stessa. La svalutazione migliora la competitività dei beni prodotti all'interno del paese, spinge le esportazioni e disincentiva le importazioni, favorendo l'industria nazionale, la crescita e l'occupazione. E bla bla bla. Era vero un tempo. Non è più tanto vero oggi. Prima di tutto, per chi non se fosse accorto, siamo inseriti in una unione monetaria, e la svalutazione dell'euro lascia completamente inalterati i rapporti di competitività con i partner dell'unione. Cioè non riguarda la parte più grossa del nostro export e del nostro import: gli scambi intra-UE.

E per quanto riguarda gli scambi extra-UE, invece, è bene sottolineare che non esiste più il modello dell'Italia paese trasformatore ed esportatore. Paese con una industria nazionale che produce ed esporta beni finiti, sostiene solo i costi delle materie prime e crea tutto il valore aggiunto all'interno dei confini nazionali. È un modello che appartiene al passato. Un passato terminato con gli anni '80. Oggi il commercio estero non si svolge più tra nazioni che si scambiano beni finali interamente prodotti al proprio interno. Le produzioni sono localizzate all'interno dei confini nazionali solo in misura molto parziale.

Negli ultimi trent'anni le industrie hanno adattato in modo più efficiente le produzioni al contesto della globalizzazione, modificandone la dislocazione geografica. La catena del valore di molte produzioni, che prima era concentrata all'interno di un singolo paese oggi è distribuita tra più paesi. Lo stesso ragionamento vale anche a livello di Eurozona, perché nemmeno le grandi aree economiche contengono completamente al proprio interno le filiere di produzione per intero. Le imprese e le industrie dei singoli paesi si sono specializzate nella produzione di singole parti componenti e di semilavorati. In altri termini a imporsi è stato il modello delle supply chain globali. Un modello irreversibile e sempre più esteso. Nel mondo si scambiano molti più componenti, beni intermedi e semilavorati che prodotti finiti. La parte di valore aggiunto creata all'interno di un singolo paese è una quota sempre più ridotta del prezzo finale del bene prodotto ed esportato.

Anche in Italia, insieme alle materie prime e all'energia, importiamo una gran quantità di componenti e beni intermedi realizzati fuori dall'Italia e fuori dall'Europa. La svalutazione riduce il prezzo in valuta estera dei beni che esportiamo. Ma aumenta in misura consistente il costo degli input importati (componenti e beni intermedi, non più soltanto materie prime ed energia) il cui peso è ormai preponderante sul prezzo finale del bene esportato. Alla fine, l'impatto positivo sulla competitività è assai limitato.

Anche sulla svalutazione dell'euro, dunque, è inutile farsi illusioni. Probabilmente gli effetti non saranno per niente consistenti. La mitica "politica del cambio" e l'Italia che si "aggancia alla ripresa internazionale" per andare al traino del mondo che cresce, forse fanno ancora effetto sull'immaginario collettivo tanto caro alla politica nazionale. Ma sono roba del passato. Al nostro paese servono riforme serie dell'economia e dei mercati per restituire vera competitività. Purtroppo, però, i nostri governanti preferiscono giocare con le previsioni di crescita come si fa con i numeri al lotto. Puntando sul ritardo: prima o poi il numero atteso uscirà.