Il velo della mistificazione che avvolge buona parte dell'attuale discussione sulla Grecia – mistificazione creata ad arte da Tsipras - lo ha squarciato Holger Schmieding, capo economista di Berenberg, la più antica banca tedesca, di ritorno da un viaggio pre-elettorale ad Atene, in cui - racconta in un report appena pubblicato -, tutti gli hanno parlato ossessivamente di debito pubblico e di poco altro: "it's not about the debt, it's about the economy stupid - to borrow a phrase from Bill Clinton".

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A ben vedere, le questioni sul tavolo sono tre, tra loro collegate, ma distinte,

A. debito;
B. austerity;
C. riforme strutturali.

I punti A e B, sebbene siano quelli che ricevono costantemente maggiore attenzione, sono in realtà i meno problematici e rilevanti ai fini di un accordo tra il nuovo governo ellenico e le istituzioni europee. Altrimenti detto: sono quelli su cui esiste certamente spazio per concessioni e flessibilità. Se e soltanto se, tuttavia, si otterranno risposte chiare e nette riguardo a C, su cui occorrerà, al contrario, essere molto intransigenti, perché in assenza di C, cioè senza riforme strutturali, la Grecia non sarà mai in grado di produrre crescita sostenibile.

Per ciò che riguarda il debito, esso è ormai un fatto contabile e, senza dubbio, politico, ma dopo l'ampia ristrutturazione avvenuta nel 2012, il suo significato economico si è molto ridotto. Come noto, il grosso dei creditori sono entità non di mercato, la scadenza media è molto lunga, il denaro per il rifinanziamento arriva direttamente dalla Troika e gli interessi annui in percentuale del Pil (2,6% nel 2014) ne rendono il servizio tra i meno costosi in Europa. A patto che Syriza - per ragioni principalmente simboliche - non si impunti su un taglio del valore nominale da subito, qualche ulteriore aggiustamento sulla stessa linea non sarà un grosso ostacolo.

Quanto all'austerity in sé, proprio perché in termini di valore attuale netto il debito ha già subito una consistente sforbiciata (ed altre, come detto, ne subirà), appare ragionevole smettere di fossilizzarsi troppo sul rapporto debito/Pil ed ipotizzare un rilassamento del target di avanzo primario, fissato per il 2016 al 4,5% del Pil. Atene guadagnerebbe svariati miliardi di spazio fiscale. Qui, però, cominciano le domande difficili e si scivola in modo poco rassicurante verso il punto C: per farne che cosa?

Poco rassicurante perché la narrativa che ha permesso a Syriza di vincere le elezioni e di acquisire un così grande seguito in tutto il continente - Thomas Piketty non ha perso tempo ad invocare una grande alleanza mediterranea contro l'austerità - si fonda su una rimozione e su una bugia.

La rimozione è quella del passato pre-2009 - passato magistralmente raccontato da Nikos Tafos nel suo libro Beyond Debt: The Greek Crisis in Context -, per cui l'attenzione si concentra sugli eventi degli ultimi cinque anni, lasciando comodamente fuori dalla porta alcuni spiacevoli fatti, fino quasi a volerci convincere che l'austerity sia stata non già (parte del)la risposta alla crisi - risposta su cui naturalmente si può discutere, ma pur sempre una risposta -, bensì la sua prima causa, ove, invece, i numeri raccontano ben altra storia, storia che è impossibile ignorare, se si vuole fare una diagnosi corretta.

La media annua del deficit di bilancio greco fu del 7% negli anni 1994-99 (la media 1981-99 addirittura dell'8,7%!), del 5,2% negli anni 2000-04 e dell'8,3% in quelli 2005-09. Tra il 2000 ed il 2009 la spesa aumentò dell'8% all'anno ed i salari nel settore pubblico del 60% in termini reali. La crescita, sostenuta dalla spesa facile e dall'indebitamento, fu a sua volta impetuosa, e superò in vari anni il 4% reale. La contrazione in atto dal 2009 ha riportato il Pil al livello del 2004, e rappresenta in parte non piccola semplicemente il payback di un'illusione, l'illusione di potersi arricchire attraverso la spesa pubblica copiosa ed incontrollata. In questo senso, la causa vera della crisi è l'esatto opposto dell'austerity di cui tutti parlano.

La bugia è dove Tsipras si fa più populista in senso tecnico, e racconta di un presunto popolo virtuoso ed omogeneo che sfida una serie di élite e di pericolosi interessi (nazionali ed internazionali) che esisterebbero per privarlo dei diritti, della prosperità, dell'identità, persino, come se un intero paese fosse stato preso in ostaggio da un gruppuscolo relativamente limitato di persone, essenzialmente il ceto politico ed alcune oligarchie, e condotto al disastro come una vittima incolpevole.

Nulla di più falso, non già perché le oligarchie in Grecia non siano un problema, lo sono di sicuro, o la classe politica non sia stata largamente impresentabile, ma perché a) dove il governo è democraticamente eletto la responsabilità primaria dello stato di cose, piaccia o meno, fa capo alla maggioranza dei cittadini, b) sappiamo benissimo - dai dati e da una straordinaria mole di aneddotica (chiunque è interessato può andare a leggersi la storia dell'orrore delle ferrovie elleniche, ad esempio) - che protezioni, elargizioni, sussidi, pensioni e stipendi facili sono stati ampiamente distribuiti tra la popolazione, la quale in nessun modo può auto-assolversi. Come ha scritto Pietro Monsurrò su queste colonne, in Grecia la democrazia è stata una forma di "corruzione di massa". Non si tratta di fare del moralismo, ma di dire la verità.

Si capisce, quindi, come suoni abbastanza curioso che il leader di Syriza ami ricordare di continuo la Germania del 1953 cui fu condonato parte del debito: quella Germania affrontò in modo puntuale e doloroso l'eredità del passato. Egli propone di tirarci una riga sopra, come se non fosse mai esistito.

O almeno lo ha proposto in campagna elettorale. Molti coltivano la speranza (o l'illusione) che ora possa rivelarsi una sorta di Lula, l'ex operaio e sindacalista che, con approccio razionale e pragmatico, seppe consolidare la posizione del Brasile su una strada di più diffusa prosperità. Forse, ma è lecito essere scettici, non foss'altro perché la campagna elettorale di Lula nel 2002 - sotto gli occhi vigili dei mercati - fu molto più ambigua e meno muscolare di quella condotta da Tsipras, il quale ha calcato così tanto la mano su certi temi, che sarà assai difficile assumere una posizione "centrista" rispetto ad un elettorato che ora si aspetta azioni ben connotate, e che egli ha incoraggiato a considerare molte delle imprescindibili riforme strutturali come il male assoluto e ad identificarle con la volontà tedesca di sottomettere il paese. Senza contare che numerose decisioni del governo brasiliano, soprattutto all'inizio, furono estremamente prudenti, fiscalmente responsabili e sostanzialmente in linea con gli orientamenti macroeconomici della precedente amministrazione Cardoso.

Più in generale, l'enormità e la profondità dei problemi strutturali che piagano l'economia greca (ed in buona parte anche quella italiana) è tale che appare abbastanza irrealistico pensare di poter ottenere risultati significativi in assenza di una solida elaborazione circa l'origine della condizione attuale, senza un credibile framework analitico che guidi le decisioni, senza, in sintesi, ammettere che i problemi di lungo periodo consistono nella presenza di eccessive rigidità sul lato dell'offerta e nella persistente inefficienza allocativa di un settore pubblico ipertrofico. E non basterà attaccare qualche interesse costituito, se poi non si comprende il valore fondamentale della concorrenza nel promuovere la crescita, né sostituire la classe dirigente con persone "più oneste", se non si capisce che, al cuore, non è una faccenda di moralità personale, ma di incentivi.

In ultima analisi, il punto che dovrà guidare l'Europa al tavolo negoziale - e c'è da aspettarsi che la Spagna si allinei alla Germania a questo riguardo, vista la paura che un approccio morbido gonfi ulteriormente le vele di Podemos - è che le concessioni su debito e austerity devono andare a ricompensare riforme vere, non già il populismo e nemmeno, questa volta, vaghe promesse. Se non sarà possibile, allora meglio lasciare che Atene vada fino in fondo per la sua strada, e fino in fondo paghi le conseguenze, tanto prima o dopo sarebbe comunque inevitabile. In una tale evenienza, l'analogia non sarà più con il Brasile, ma con ben altre e tristi realtà sudamericane.