Nel novembre scorso, la stampa belga ha annunciato che il Belgio potrebbe chiudere 33 tra ambasciate e consolati in giro per il mondo. Il ministero degli Affari esteri "ha confermato l'esistenza di questo elenco"(1).

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Tutto questo ha ovviamente un forte profumo "nazionale" in un Paese dove le regioni hanno preso gusto alla gestione diretta e sempre più esclusiva delle relazioni internazionali e dove, inutile chiudere gli occhi, alcuni lavorano ardentemente alla costruzione del dopo-Belgio. Che questo venga apprezzato o meno, è legittimo. Ciò detto, non si tratta qui soltanto di un affare belgo-belga. La maggior parte dei Paesi dell'Unione europea è alle prese con delle scelte dolorose finalizzate a contenere, se non addirittura diminuire, le spese dell'apparato statale. Il campo degli Affari Esteri non fa eccezione.

Per ragioni evidenti, la questione riguarda meno gli stati membri detti "grandi" che i "medi" e i "piccoli". Tra questi ultimi, alcuni hanno una rete limitata di ambasciate e di consolati, mentre altri riscontrano difficoltà crescenti per mantenere una presenza diplomatica e consolare che hanno assicurato, alcuni di loro almeno, molto a lungo. In un modo o in un altro, tutti questi Stati si trovano di fronte alla dura realtà dei numeri, non importa quanto occultata da un discorso ufficiale che parla di "razionalizzazione" e "ottimizzazione".

Tuttavia una domanda rimane. Questa drastica ristrutturazione è l'unica soluzione possibile? Si può, come il professor Michel Liégeois, escludere qualsiasi prospettiva di soluzione europea, ritenendo che "un rappresentante permanente dell'UE ha come compito quello di rappresentare l'Unione e non gli interessi degli stati membri (e che) appare quindi difficile per uno stato fare affidamento su quella rappresentazione"(2). Rebus sic stantibus, questa lettura è, in parte, pertinente. Solo in parte, però, perché i trattati consentono di considerare qualcosa di diverso.

Gli Stati "piccoli" e "medi" potrebbero in effetti ricorrere all'Articolo 20 del Trattato sull'Unione europea, mostrando in questo modo che le cooperazioni rafforzate non sono state concepite per i soli "grandi" stati. In altri termini potrebbero decidere di "comunitarizzare" le loro relazioni diplomatiche con un certo numero di Paesi terzi e dimostrare, una volta di più, che è possibile creare una meccanica istituzionale che consenta tanto di difendere gli interessi delle parti quanto l'emergere di interessi comuni.

Ipotesi
I quindici stati "piccoli" e "medi" della zona euro e dello spazio Schengen (affari consolari) presentano presso il Consiglio una proposta di cooperazione rafforzata che chiameremo "Unione diplomatica e consolare" (UDEC). Si tratta di: Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Insieme, questi stati riuniscono 83 milioni di abitanti e hanno un PIL complessivo di 2.257 miliardi di euro, meno della Germania (2.737) ma un po' di più della Francia (2.060)(3).

Quali Paesi terzi?
Se mettiamo da parte i Paesi europei, le grandi e medie potenze (gli Stati Uniti, i BRICS, il Giappone...), le ex colonie dei Paesi partecipanti(4) alla cooperazione rafforzata, i Paesi del Mediterraneo (Stati del Magreb, Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia...), rimangono più di 120 Paesi dove questi quindici stati membri dell'Unione potrebbero essere rappresentati congiuntamente.

Perché l'operazione consenta delle economie di bilancio, almeno per i Paesi che dispongono attualmente delle reti diplomatiche più costose, il contributo finanziario di questi Paesi nella nuova rete europea dovrebbe essere tendenzialmente inferiore alle economie realizzate grazie alla chiusura, nei Paesi terzi, di ambasciate e di consolati, che diventerebbero di competenza dell'Unione diplomatica e consolare.

Scenario
In un primo tempo, i quindici Stati deciderebbero di mettere in comune o, se si preferisce, di "comunitarizzare" le loro relazioni diplomatiche e consolari in sette regioni: Africa dell'Est, Africa dell'Ovest, Africa centrale, Africa australe, Asia, America centrale e dei Caraibi, Oceania(5).

Sulla base di questa ipotesi, una sessantina di Paesi vedrebbero l'apertura di un'ambasciata e di un consolato dell'Unione diplomatica e consolare, con la conseguente chiusura di un certo numero di ambasciate e di consolati di Paesi partecipanti (una ventina per i Paesi Bassi, una quindicina per il Belgio, tra cinque e dieci per la Grecia, l'Irlanda, la Finlandia e il Portogallo, tra zero e cinque per gli altri Paesi).

Quale organizzazione?
I quindici stati partecipanti all'Unione diplomatica e consolare delegherebbero ciascuno un vice-ministro degli Affari esteri incaricato di definire con i suoi quattordici colleghi la politica (relazioni politiche, economiche, culturali...) dell'Unione diplomatica e consolare nei confronti di ciascuno degli stati terzi per i quali l'UDEC sarebbe competente. Le decisioni di tale "Consiglio dei 15" sarebbero prese a maggioranza qualificata(6). I vice-ministri, sotto la responsabilità del loro ministro di riferimento, risponderebbero davanti al loro rispettivo parlamento della politica attuata al livello dei 15 e assicurerebbero il coordinamento per gli affari di competenza dell'UDEC in seno al ministero degli Affari esteri e al Ministero degli Interni (affari consolari) del loro rispettivo Paese.

I quindici Stati sceglierebbero di comune accordo una personalità incaricata dell'attuazione della politica definita dal Consiglio ministeriale dei 15. Eletta per cinque anni, questa personalità parteciperebbe, in vece dei ministri degli Affari esteri degli Stati partecipanti, a tutte le riunioni del Consiglio dei ministri degli Affari Esteri dell'Unione europea per tutte le questioni relative ai Paesi di competenza esclusiva dell'UDEC. Guiderebbe le delegazioni economiche e commerciali in questi Paesi.

La quota-parte finanziaria di ciascuno stato partecipante sarebbe definita, come per i contributi al bilancio dell'Unione, sulla base del PIL degli stati partecipanti. In un primo tempo, il personale diplomatico sarebbe assunto sulla base di un concorso tra il personale diplomatico dei quindici stati. In seguito, qualsiasi cittadino degli Stati partecipanti che abbia superato l'esame di ammissione alla Commissione europea potrebbe presentare l'atto di candidatura.

Perché solo 15 stati?
L'ideale, si capisce, sarebbe che l'insieme degli stati membri decidesse di partecipare all'attuazione di questo primo nucleo di politica estera comune. Ma tutti sappiamo che alcuni Stati Membri dell'UE escludono a priori qualsiasi sviluppo di questo tipo, o prendono addirittura in considerazione la possibilità di uscire dall'Unione. Perfino in seno alla zona euro, alcuni Stati non sono presumibilmente pronti.

Dopo dieci anni di sua presenza alla Cancelleria, si può concludere, senza essere bollati di temerarietà, che la Germania di Angela Merkel non ha nessun gusto particolare per le proposte costruttive in materia di integrazione europea. Una constatazione simile può essere fatta nei confronti della Francia, dove l'ultimo approccio costruttivo risale alla presidenza, pure controversa da questo punto di vista, di Jacques Chirac.

Non si può escludere che l'Italia e la Spagna, invece, possano essere interessate, anche se, contrariamente ai 15 altri Stati per i quali gli effetti positivi in termini finanziari ed in termini di dispiegamento diplomatico sarebbero immediati, l'impatto di una tale iniziativa sarebbe probabilmente più differito e di minor ampiezza. Resta però, evidentemente, il fatto che la forza di una diplomazia comune che includesse Spagna ed Italia sarebbe tutt'altra. Questi 17 stati avrebbero un PIL complessivo di 4.840 miliardi di euro per una popolazione di 190 milioni di abitanti.

Quale base giuridica?
La questione della base giuridica è spinosa, perché i negoziatori dei trattati si sono adoperati a rendere difficile, se non addirittura impraticabile, l'attuazione di cooperazioni rafforzate in materia di politica estera. Al punto che ci si può chiedere se, più ancora di quanto sostiene Valery Giscard d'Estaing per il quale "la natura stessa della funzione diplomatica è di rappresentare e di far trionfare gli interessi nazionali"(7), essa non sia in primo luogo di assicurare la perennità immutata della corporazione.

Così l'articolo 329 § 2 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede che il Consiglio, per autorizzare una cooperazione rafforzata, debba prendere una decisione all'unanimità. In altre parole, un solo stato tra quelli che non vi partecipano sarebbe in grado di impedirla. Non ci sono quindi molti dubbi che, con un pretesto o un altro, la risposta del Consiglio dei Ministri dell'Unione europea a questa proposta di cooperazione rafforzata sarebbe negativa.

L'arte dello schivare
Questo veto probabile, se non certo, non può né deve tuttavia costituire un motivo per cui quindici Stati rinuncino ad andare avanti e a difendere i propri interessi e le proprie ambizioni. Un'alternativa esiste: il metodo Schengen. I quindici Stati potrebbero decidere di stabilire tra loro una convenzione dotata di personalità giuridica(8), organizzando le loro relazioni diplomatiche e consolari con un certo numero di stati terzi.

Sempre promuovendo una prospettiva istituzionale che faciliti, a termine, l'integrazione di questa convenzione nell'architettura generale dell'Unione, gli Stati membri prenderebbero atto del rifiuto momentaneo dell'Unione e promuoverebbero un tipo di organizzazione che consenta l'articolazione più armoniosa possibile della Convenzione con l'Unione. In questo scenario, invece di una personalità esterna incaricata di attuare la loro politica comune, i quindici potrebbero decidere di optare per una presidenza a turno. In altri termini, sarebbe il solo ministro degli Affari esteri di turno ad assicurare la presidenza dell'UDEC, e solo lui difenderebbe in seno al Consiglio dei Ministri degli Affari esteri dei 28 la politica adottata dagli stati facenti pare della Convenzione, e assicurerebbe la rappresentanza dei Quindici presso i paesi terzi.

"Laddove c'è una volontà, esiste una strada"(9)
Un tale strumento non solo consentirebbe ai "piccoli" e "medi" stati dell'Unione europea di realizzare delle importanti economie di scala e di adottare un'alternativa ai tagli alle reti diplomatiche nazionali, ma offrirebbe anche la possibilità di instaurare nuove cooperazioni, di investire in nuovi mercati, di creare sinergie tra gli attori economici dei Paesi partecipanti alla Convenzione e, last but not least, di dimostrare concretamente la fattibilità di una vera comunitarizzazione della politica estera europea e, allo stesso tempo, di dimostrare falsa l'asserzione ricorrente secondo la quale l'Europa potrebbe progredire esclusivamente sotto l'impulso del motore franco-tedesco.

 

Note al testo:

(1) "33 ambassades et consulats belges à l'étranger menacés de fermeture", La Libre, 29 novembre 2014;

(2) "Pourquoi fermer des ambassades de Belgique?", intervista con Michel Liégeois, Professore e ricercatore presso il Cecri (UCL), a cura di Thierry Boutte e Valentine Van Vyve, La Libre, 2 dicembre 2014;

(3) Fonte Eurostat 2013;

(4) A meno che questi Paesi (Portogallo, Belgio e Paesi Bassi) non abbiano obiezioni.

(5) Africa orientale: Burundi, Comore, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Uganda, Ruanda, Seychelles, Somalia, Sud-Sudan, Tanzania. Africa occidentale: Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo. Africa australe: Botswana, Lesotho, Malawi, Namibia, Swaziland, Zambia, Zimbabwe. Africa centrale: Camerun, Repubblica centro-africana, Repubblica del Congo, Gabon, Guinea equatoriale, Ciad. Asia: Bhutan, Cambogia, Kirghizistan, Laos, Maldives, Mongolia, Nepal, Uzbekistan, Sri Lanka, Tagikistan, Turkmenistan. America centrale e Caraibi: Belize, Costa Rica, Cuba, Guatemala, Haiti, Honduras, Jamaica, Nicaragua, Panama, Repubblica dominicana, Salvador, Trinidad e Tobago. Oceania: Nuova Zelanda, Papua-Nuova Guinea;

(6) 55% degli stati partecipanti e rappresentando degli stati partecipanti che riuniscono almeno 65% della popolazione di questi stati;

(7) "Europa, La dernière chance de l'Europe", Valery Giscard d'Estaing, XO Editions, Parigi, 2014;

(8) Al fine, tra l'altro, di poter realizzare autonomamente gli investimenti necessari (sedi di ambasciate e consolati, trasporti...);

(9) Attribuita a Winston Churchill.