Il decreto del governo sul cosiddetto contratto a tutele crescenti, visto dal lato di chi auspicava il superamento dell'articolo 18 a vantaggio di un sistema che ancorasse le tutele alla mobilità e non all'immobilità del lavoro, non è tanto un caso di bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma mezzo pulito e mezzo sporco.

giustizia

È caduto un tabù – cioè la tutela reale e la mitologica "reintegra" nel caso di licenziamenti economici illegittimi – e tanto basta ai riformisti per festeggiare e ai conservatori per gridare alla fine del mondo. Ma la transizione dal vecchio al nuovo si porta dietro troppi fardelli ideologici e troppo ingombri pratici – e troppe trappole disseminate qui e lì da manine nemiche ed esperte – perché si possa parlare, in senso stretto, di "regime change".

Per cambiare davvero regime ci si sarebbe dovuti muovere verso un sistema che superasse la stessa nozione di "legittimità" dei licenziamenti (con l'ovvia eccezione di quelli discriminatori e ritorsivi), intesi come fatti interni all'organizzazione d'impresa, indissolubilmente connessi, alla pari delle assunzioni, all'esercizio della libertà economica e predeterminasse, in modo tendenzialmente automatico, il costo d'uscita per l'imprenditore e la prestazione per il lavoratore, secondo uno schema sostanzialmente assicurativo.

L'esecutivo, probabilmente, non avrebbe in ogni caso potuto spingersi così avanti, aggredendo oltre al tabù della reintegrazione anche quello, concettualmente ancora più tenace e logicamente sovraordinato, del licenziamento come violazione di un diritto sociale giustiziabile. Però con la nuova disciplina tutte le rotture del Jobs Act si consumano a valle e non a monte di questo principio, con tutte le controindicazioni e le incompatibilità del caso con un modello moderno e efficiente di flexsecurity. Da questo punto di vista, risulta coerente anche la contraddizione più clamorosa dello schema di decreto approvato il 24 dicembre, per cui si riserva il diritto al contratto di ricollocazione solo ai lavoratori "vittime" di un licenziamento illegittimo (o di un licenziamento collettivo).

Peraltro la giurisdizionalizzazione non solo del contenzioso di lavoro, ma del funzionamento stesso del mercato del lavoro, e un'implementazione giurisprudenziale ostile delle novelle legislative imposte dall'esecutivo sono oggi rischi paradossalmente accresciuti dall'isolamento politico della sinistra sindacale, che cercherà e potrebbe trovare nei giudici la sponda perduta nel principale partito della sinistra.

@carmelopalma