Sui cosiddetti minimi, il governo Renzi ha fatto una riforma, per certi versi, "strutturale".

È però difficile ritenere che sia stato un obiettivo di gettito a spingere l'esecutivo a fare l'esatto contrario di quanto, fino a pochi mesi fa, era previsto, cioè l'innalzamento del tetto dei 30.000 euro e la piena istituzionalizzazione del regime agevolato, dopo l'autorizzazione dell'Ue all'Italia ad aumentare la soglia di esclusione dall'Iva fino a 65.000 euro.

Bandiere rosse grande

A spiegare il dietro front del governo non può essere stata la necessità di far cassa, visto che l'effetto di soglie, aliquote e coefficienti di redditività del nuovo regime forfettario non comporterà l'iscrizione delle nuove partite iva al regime ordinario, ma la sommersione fiscale di quel "precariato autonomo" cui il regime agevolato offriva, in termini economicamente sostenibili, un canale di emersione giuridica e fiscale. Adesso tutto quello che ci si può attendere è meno lavoro e, per il lavoro che rimane, "meno gettito" e "più nero".

Non va però dimenticato che ciò che ha decretato il successo dei minimi coincideva con quanto ha reso la loro fattispecie giuridico-fiscale particolarmente insidiosa. Il regime agevolato ha infatti esteso al lavoro autonomo quel carattere duale che, in altra forma, connotava l'universo del lavoro dipendente e ha rappresentato (non solo, ma anche) un modo opportunistico per calare la maschera dell'autonomia su rapporti di lavoro di tipo sostanzialmente dipendente.

Ovviamente, ciò non significa che tutti i minimi siano stati fino a oggi finte partite Iva, ma che molti finti clienti dei minimi siano stati in realtà veri e propri datori di lavoro.

Da questo punto di vista, le norme sui minimi della legge di stabilità possono intendersi come un complemento esterno del Jobs Act, un modo grossolano, ma più efficace, ad esempio, delle norme casuistiche e aggirabili sulla mono-committenza, per ricondurre al lavoro dipendente prestazioni che, per le loro caratteristiche professionali, devono intendersi a priori inquadrate in un rapporto di lavoro dipendente. Una scelta chiara, anche se non dichiarata; molto "di sinistra" e decisamente azzardata.

L'assunto, anch'esso non dichiarato, è che una liberalizzazione moderna del mercato del lavoro dipendente debba trovare conferma in un'irreggimentazione decisamente retrò del lavoro autonomo.

Come a dire che, a parte commercianti e artigiani, solo i professionisti grandi e grossi, capaci di sopportare il peso del regime fiscale ordinario, possono considerarsi autonomi. Gli altri, che lo vogliano o no, vadano sotto padrone.

La scommessa del governo è ambiziosa e astrattamente coerente, ma sconta gli stessi limiti "costruttivistici" che l'esecutivo ha giustamente rimproverato ai teorici dell'articolo 18 per tutti. Una scommessa che possa avere una qualche chance di vincita, infatti, anche sul mercato del lavoro, dovrebbe passare da scelte concretamente e magari disordinatamente pro crescita, non da disegni organici e perfetti nel loro equilibrio formale.

E una misura che avrà l'effetto di ridurre l'area borderline per gonfiare la disoccupazione legale o l'occupazione illegale va esattamente nella direzione opposta.

Scherzando, ma non troppo, si potrebbe dire che la stretta sui minimi assomiglia al Fiat iustitia et pereat mundus che tanto piace ai "comunisti" anti-renziani, devoti a un ideale non negoziabile con la realtà.