Nel giugno 2009 un Berlusconi triumphans, senza veri concorrenti interni e senza alcuna alternativa esterna (Il PD veltroniano era, per citare la canzone, appena nato e già finito) bissava alle elezioni europee il risultato ottenuto alle politiche del 2008. Il Cav. era il solo leader di governo del continente a sopravvivere brillantemente ai primi morsi della crisi e a confermare la propria imprescindibilità.

Qualche mese prima, a marzo, in un congresso passerella molto Berlusconi style, il PdL si era fatto partito e aveva preso avvio la costruzione del country-party del centro-destra italiano, a immagine e somiglianza del suo leader eterno, ma ambiziosamente destinato a sopravvivergli e a eternare il senso e la genialità del suo centro-destra plurale nel senso, molto particolare, di flessibile e servibile, gonfiabile e sgonfiabile, oltre che capace di farsi, per usare le parole del fondatore, "concavo" o "convesso", a seconda delle convenienze e delle necessità.

renzi cuperlo grande

Il PdL al tradizionale pluralismo competitivo dei partiti maggioritari - era la strada che aveva scelto il PD e che sarebbe arrivata fino all'incredibile trionfo di Matteo Renzi - sostituiva un pluralismo sovrastrutturale e centralistico, interamente risolto nell'unità carismatica della leadership. C'era spazio per tutti (fascisti, socialisti, libertari, clericali...), ma all'interno dello spazio e del disegno politico di un leader, peraltro, abbastanza capriccioso e agnostico, molto disponibile a contraddirsi, ma non a essere contraddetto.

Meno di due anni dopo, quel partito era di fatto morto (anche se fu seppellito solo nel 2013) e quel leader "invincibile" definitivamente battuto, anche se, grazie a una straordinaria tenacia e abbondanza di mezzi, cinque anni più tardi ancora campa politicamente a cavallo tra il "suo" centro-destra (ormai polverizzato e dominato culturalmente dai lepenisti all'italiana) e il centro-sinistra renziano, da cui il Cav. cerca e ottiene una sponda interessata e intelligente, che però a tutto servirà, fuorché a "infuturare" quel che rimane del suo partito.

Molti dirigenti, iscritti e elettori democratici augurano oggi a Renzi di finire come Berlusconi e al PD di uscire a pezzi dalla guerra sull'art.18 come il PdL venne spazzato via dall'esplosione della bolla di consenso per il Cav. Dunque lavorano di conseguenza, un po' lucidamente, un po' disperatamente, forti e deboli per la stessa ragione, per l'essere insieme troppi e troppo pochi, rappresentanti ed eredi di una sinistra "tradizionale" ancora gonfia di orgoglio e di popolo (San Giovanni racconta iconograficamente tutto di questa identità), ma socialmente minoritaria e marginale, non solo priva dell'egemonia che, malgrado il fattore K, per decenni è stata in grado di esercitare nei processi culturali del Paese, ma politicamente alla deriva nell'oceano del capitalismo globalizzato, minacciata e scavalcata a sinistra, nella rappresentanza degli ultimi, pure dalle forze della destra brutta, sporca e cattiva (in Italia Salvini e Grillo, in Francia Le Pen...).

Nella battaglia contro la minoranza interna Renzi pare volere stravincere, tenendo la sinistra perdente legata davanti allo specchio della propria sconfitta. Il suo discorso di ieri, sulla sinistra ferma alla telefonia fissa, che cerca ostinatamente di mettere un gettone nell'Iphone, è stato impietoso e verissimo, ma non è sembrato, al di là delle intenzioni del premier, il discorso di uno che vuole salvare il PD e scongiurare una scissione sostanzialmente alle porte. A rendere sospetto il suo disegno interno - sul partito, non solo sul governo - è anche questa idea eclettica e cumulativa dell'allargamento della base democratica, che traspare dalle parole e dagli atti, con la vetrina offerta, ad esempio, a Gennaro Migliore chiamato a fare "il comunista di palazzo", cioè l'opposizione di regime dentro il partito renziano, pur rappresentando, a prendere sul serio le cose che dice, una sinistra ideologicamente molto più attardata e decisamente più opportunista di quella interna.

Se Renzi ha "patriotticamente" ragione a volere rottamare i totem e i tabù della sinistra novecentesca ed è in grado di raccogliere su questa linea una maggioranza ampia e trasversale, ben oltre i confini del PD, è anche vero che di quel 40% che il premier celebra a ogni discorso come prova della propria superiorità fa aritmeticamente e politicamente parte anche la sinistra di San Giovanni. Anzi, come le analisi dei flussi hanno dimostrato, il "miracolo" di Renzi alle elezioni europee è stato quello di crescere al centro senza perdere voti a sinistra, né verso la lista Tsipras, né verso l'astensione. Senza quella "vecchia" sinistra, Renzi non arriva al 40%, ma torna, al massimo, a quel 25% che oggi indica come una soglia di indegnità e di irrilevanza.

Il premier ha ovviamente l'alternativa di tornare a crescere verso il centro e verso destra, recuperando più voti di quanto una "rifondazione diessina" potrebbe togliergliene a sinistra e oggi ne sarebbe forse anche capace. Ma a quel punto sarebbe molto difficile, al di là degli aspetti formali, qualificare la sua ditta come il "vero" PD e come la rappresentanza italiana di quel PSE, di cui oggi Renzi è il leader più votato, ma anche più anomalo. E soprattutto, a quel punto, il partito renziano rischierebbe di diventare ufficialmente un partito "personale", come quello berlusconiano, pur con tutte le differenze del caso.

Dal punto di vista logico, per fare di quel pezzo di partito socialista europeo che risponde al nome di PD un vero "partito liberale di massa" la scissione è davvero necessaria, ma a farla forse dovrebbe essere Renzi. Non sappiamo se un radical-center renziano avrebbe un futuro, ma il PD modello Leopolda rischia di non sopravvivere neppure al proprio presente.

@carmelopalma