Uno degli elementi più inquietanti del modo in cui l'affare ucraino viene generalmente affrontato, risiede nel modo in cui la questione della natura del regime politico del paese aggressore viene omessa. Certo, la Russia di oggi non è l'Urss staliniana e neppure brezneviana, né la Germania nazista, né l'Italia fascista, e neanche la Cina bolscevico-confuciana. È un po' di tutto questo ed è, allo stesso tempo, qualcosa di completamente diverso. Un potere di natura nuova, straordinariamente moderno, che ha sostituito il partito unico, struttura centrale del regime precedente, con le strutture di forza (servizi segreti in primo luogo), svuotando progressivamente della loro sostanza le strutture democratiche degli anni '90.

Putin grande

Anche formalmente si stanno moltiplicando i segnali che dimostrano la rapida trasformazione del sistema vigente in Russia. Oltre a una giustizia di regime sulle questioni politiche sensibili, a un parlamento fantoccio e a mass-media nella loro stragrande maggioranza addomesticati, è ormai lo stesso governo russo ad essere marginalizzato. Il centro del potere si è spostato verso la dacia di Putin dove le decisioni sono prese dal principe, circondato, sembra, dal capo del FSB e da sei o sette capi di dipartimento dei servizi, dal ministro della difesa, Sergei Shoigu, e da pochi altri. Quanto al sostegno dell'opinione pubblica alla politica del potere, regge in maniera impressionante. E seppure mai dovesse affievolirsi, il potere può contare su un sistema repressivo tanto più temibile in quanto è riuscito a compiere la sua mutazione da quantitativo a qualitativo, dalla sorveglianza-repressione a tutto campo verso un controllo-repressione mirato degli oppositori interni. Sul fronte esterno, i servizi russi hanno rinnovato le loro pratiche, associando alle tecniche tradizionali di seduzione e di corruzione, un ricorso massiccio alle partecipazioni nei settori economici più variegati. In un tale contesto, sarebbe illusorio sperare in un cambiamento di regime a breve o medio termine.

Senza una tale presa di coscienza, l'Europa rischia di fare sempre troppo poco, sempre troppo tardi. Il regime russo ha già vinto due battaglie: la Crimea è stata annessa, una parte della regione di Donetsk e Luhansk è stata, di fatto, trasformata in una nuova "Transnistria". Una terza battaglia per il controllo dell'insieme del litorale ucraino intorno al mare di Azov e fino alla Crimea è già da ora cominciata. Sul fronte esterno, il regime segna dei punti. Viktor Orban, il primo ministro ungherese, si è schierato tra gli apologeti del padrone del Cremlino. Gli "avvertimenti" si stanno moltiplicando: ultimi in ordine di tempo, il rapimento da parte di membri dei servizi russi di un ufficiale di polizia estone, un calo senza preavviso delle forniture di gas alla Polonia.

Si rassegnino i sostenitori ad oltranza del soft power sempre e comunque, le sanzioni contro la Russia, seppur necessarie, non potranno svolgere un ruolo decisivo per fermare l'aggressione russa in Ucraina e, inoltre, per opporsi con successo alla politica russa che mira a far implodere l'Unione europea. Sono ormai indispensabili delle misure politiche di un tutt'altro ordine.

L'attuazione di un'audace politica europea dell'energia con l'obiettivo di porre fine alla dipendenza nei confronti del gas russo, necessaria per bloccare la politica del divide et impera del Cremlino.

L'apertura immediata del processo di adesione dell'Ucraina all'UE, fondamentale per accompagnare e confortare il processo di radicamento della democrazia e dello stato di diritto in corso in Ucraina.

La fornitura apertamente rivendicata dall'UE di armamenti difensivi all'esercito ucraino (armamenti anti-carri e anti-aerei), indispensabile per rafforzare le capacità di dissuasione dell'Ucraina.  

Ma il crollo dell'ordine europeo provocato dalla guerra non dichiarata della Russia all'Ucraina costringe ormai l'UE e i suoi stati membri ad affrontare collettivamente la questione della loro sicurezza e della difesa dei loro cittadini, dei loro territori e dei valori che insieme e separatamente intendono incarnare.  

L'obiezione è nota: una difesa europea non potrà essere che la conclusione del processo di integrazione europea. Eppure sessant'anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) e dopo molteplici iniziative di cooperazione bi o multilaterali nel settore senza sostanziali conseguenze politiche, crediamo che sia venuto il momento di capovolgere la logica e di considerare che, più ancora della sua utilità intrinseca in termini di sicurezza, la creazione di un esercito europeo comune contribuirà in modo determinante, di per sé, a indurre gli stati europei a definire finalmente l'elenco delle loro priorità strategiche comuni.

È quindi giunto il momento, per gli stati membri dell'Unione che lo desiderano, della creazione di un esercito europeo comune accanto ai loro rispettivi  eserciti nazionali. Non un'ennesima iniziativa intergovernativa, un conglomerato di forze nazionali senza ossatura politica, ma un esercito comunitario, composto da soldati europei, sotto l'autorità del presidente della Commissione, con dotazioni iniziali senz'altro modeste (0,20 % del bilancio degli stati partecipanti), ma sufficiente per consentire la creazione di due divisioni di intervento rapido e di due forze aeronavali di stanza in Polonia ed in Romania e, perché no, organizzate intorno ai due Mistral inizialmente ordinati dalla Russia. Gli orientamenti strategici e le regole di ingaggio di questo esercito sarebbero sottoposte all'approvazione del Consiglio dei Ministri degli Affari esteri e del Parlamento europeo.

Oltre a contribuire attivamente alla sicurezza dei cittadini europei, la creazione di questo esercito potrebbe contribuire a portare gli Europei a percepirsi collettivamente o, in altri termini, a "pensare europeo".