A quarant'anni passati è possibile che un lavoro non lo si trovi comunque, anche a regole di mercato più universali delle attuali
Il mercato del lavoro cerca giovani, ed è comprensibile che sia così, non solo per i costi minori. Quarant'anni è (sarebbe) l'età del salto professionale tra livello medio e senior, non del ricollocamento di figure uscite dal mercato, causa crisi. Il salto professionale si fa in continuità, non per scarto da un impegno professionale ad uno stop di attività, ad un nuovo impegno professionale omologo al precedente.

lavoro giusta

Il salto professionale in genere funziona per le carriere costruite all'interno di un'azienda o di un settore nel quale si è maturata esperienza e consolidato il profilo, in serena continuità di percorso. La carriera è favorita nei percorsi lineari, a basso rischio, con pochi cambiamenti. Almeno così è in Italia.

È difficile che un quarantenne già entrato nella spirale della in-occupazione possa uscirne all'approssimarsi dei cinquanta, se nel frattempo a cambiare non sarà stata solo la modalità di uscita dal mercato, ma anche la conseguente azione di ricollocamento. Se cioè, oltre ad un intervento di buon senso sul lato dell'apparentamento tra lavoratore e datore di lavoro, il sistema non abbia investito anche sul lavoratore uscito dal mercato.

L'obiettivo non è imporre agli uffici di collocamento d'Italia una pratica per ciascun lavoratore-disoccupato, e far finta che lo Stato si stia prendendo cura di lui; nel nuovo welfare ciascun agente di collocamento deve avere un obiettivo, misurabile, in base al quale sarà ponderata la retribuzione, vale a dire rendere il disoccupato un cercatore di occupazione che se la può giocare, non necessariamente nello stesso mercato di prima.

Appetibilità professionale continua, sostegno economico nelle fasi di riconversione, intervento attivo di adeguamento professionale sono tutele intelligenti. Costose ma intelligenti. Difficili da implementare ma intelligenti. Senza queste tutele, il disoccupato resta disoccupato, ed ogni disoccupato costa, al paese, in mancata affidabilità, mancata efficienza, mancata equità oltre che in mancato Pil. Il welfare pro-work è intelligente per questo: se funziona, conviene.

Il welfare che funziona in maniera pro-work è la tutela che l'avvocato o il giornalista o il manager o il ricercatore quarantenne senza lavoro oggi non hanno; è la cosa che eviterebbe a persone nel pieno della propria spendibilità professionale di lasciare alle spalle la propria professione e occuparsi piuttosto di come tirare a campare.

Il sistema di welfare che assicura al disoccupato la possibilità di mantenersi costruttivamente attivo, attraverso opportunità di lavoro o di formazione, è solo un insieme di regole; quelle regole, tuttavia, se disegnate bene ed applicate meglio, possono ri-plasmare la mentalità dei lavoratori, dei datori di lavoro e anche dello Stato, nella sua funzione non di protettore di una parte dall'altra, ma di facilitatore dell'incontro tra l'una parte e le altre.

Le regole - lo sappiamo - non creano lavoro. E, finché non gireranno buone idee imprenditoriali prima ancora che soldi, economia italiana e circuiti professionali italiani continueranno a stagnare. Le regole eque, tuttavia, servono - e si vede quanto siano necessarie proprio nei momenti in cui le cose vanno male, non quando va tutto alla grande. Quando quelli che prima lavoravano a progetto ed ora invece stanno a spasso: è in questi momenti che le iniquità emergono dai fondali della palude. Noi ci siamo immersi fino al collo.

I garantiti ricevono ormai meno solidarietà degli outsider. Abbiamo l'opportunità di sgomberare un po' delle trappole figlicide disseminate qua e là dai nostri padri, cogliamola. Costerà, non è affatto sicuro che riuscirà, arriva con vent'anni di ritardo, ma il Jobs Act che sembra avere in mente Renzi è una cosa - diciamolo - liberatoria.

@kuliscioff