La politica monetaria negli Stati Uniti vive una fase di assoluta discrezionalità da almeno due decenni. Il quantitative easing (QE) è solo l'ultima, titanica manifestazione di una condotta inaugurata ben prima del crack Lehman del 2008 e dei mutui sub-prime del 2007. Una condotta che in venti anni ha gradualmente accantonato l'economia reale per fare fronte prima alle esigenze, poi alle richieste pressanti, e infine ai gravi dissesti della grande finanza.

yellen

Da tempo si parla di chiudere la parentesi della discrezionalità e tornare alle normali regole della politica monetaria. Ma all'ultimo momento l'adozione della exit strategy viene sempre rinviata a data da destinarsi. La decisione più recente della FED è di qualche giorno fa: se da un lato essa conferma la riduzione degli acquisti di titoli sul mercato e la chiusura del QE a ottobre prossimo, dall'altro lato rinvia nuovamente il rialzo dei tassi di interesse a un futuro imprecisato, preoccupandosi di ostentare cautela nei confronti dei mercati finanziari. Per giunta, la chiusura del programma di acquisti, proposito di per sé importante, ha una valenza poco più che simbolica. Il QE, infatti, lascia in eredità al bilancio della FED uno stock enorme di attività finanziarie pubbliche e private. Oggi ammontano a quasi tremila e 500 miliardi di dollari, più o meno il triplo rispetto al livello del 2008. La enorme liquidità iniettata fino a oggi sul mercato sarà un pesante fardello per la politica monetaria americana nei prossimi anni. A “politiche invariate”, infatti, il bilancio della FED potrà tornare nelle condizioni pre-crisi non prima della fine del decennio! E la FED ha comunque annunciato che i titoli in scadenza per ora saranno riacquistati, e che perciò non si inciderà ancora sullo stock esistente.

Sui tassi di interesse, come noto, la maggioranza del board della FED è concorde per aumentarli già dalla primavera 2015. Ma il comunicato finale della Yellen non fissa alcuna data precisa e stabilisce che la politica monetaria potrà rimanere accomodante per un “tempo considerevole”, con possibilità di procrastinare ancora l'aumento dei tassi se le previsioni sull'economia dovessero peggiorare. Eppure i numeri dell'economia reale, almeno in apparenza, non giustificano più i tassi a livello zero. Secondo la stessa FED, il PIL USA dovrebbe crescere tra il 2 e il 2,2 per cento nel 2014 e tra il 2,6 e il 3 per cento nel 2015. L'inflazione è ancora bassa, ma dovrebbe gradualmente salire al 2 per cento entro il 2017. La disoccupazione è al 6 per cento. Questi numeri, noi italiani, ce li sogniamo! La ragione del rinvio quindi deve essere un'altra. La FED probabilmente è impaurita da quello che potrebbe succedere agli utili delle società quotate.

Un rialzo immediato dei tassi metterebbe fine a una stagione di risultati “stellari” che dura da quasi dieci anni. Durante questo periodo gli utili sono cresciuti mediamente più del 9 per cento all'anno, oltre il doppio rispetto all'economia reale, e oggi la loro quota in rapporto al PIL è ai massimi degli ultimi 70 anni. I timori della FED non riguardano tanto l'economia reale quanto una possibile frenata degli utili delle società. Essa si ripercuoterebbe sulle quotazioni. I riflessi sono imprevedibili ma potenzialmente devastanti per i mercati e il sistema finanziario, che rimane fragile e instabile, nonostante la calma, evidentemente temporanea, stabilitasi dopo i momenti più bui della crisi.

Oggi come ieri, il grande ombelico del mondo, per la FED, sono i mercati finanziari e non l'economia reale. Oggi sono i dissesti della finanza a ostacolare il ripristino di uno schema normale di politica monetaria. Oggi le banche centrali, negli Stati Uniti come altrove, sono costrette a trasformarsi in prestatori di ultima istanza sostituendo governi indebitati e bilanci pubblici in deficit. E la politica monetaria deve assumere su di sé, impropriamente, l'obiettivo della stabilità sistemica per porre rimedio al fallimento della regolazione bancaria e finanziaria. Era ieri, però, molto prima della grande crisi, quando le ragioni della finanza convinsero la FED a deviare consapevolmente dagli schemi normali di gestione della moneta. E ancor prima furono le sirene della finanza, la politica e le lobby, a catturare le autorità di regolazione minando strutturalmente la stabilità del sistema finanziario.

Non è la prima volta che un banchiere centrale subordina gli andamenti dell'economia reale e l'esercizio del proprio mandato ai mercati finanziari. Non è la prima volta che un banchiere centrale deve preoccuparsi di una bolla che potrebbe scoppiare. Oggi è costretto, ma ieri fu una decisione consapevole. Tra il 2002 e il 2004 Greenspan si trovò in una situazione analoga a quella di oggi. Una rigorosa gestione della politica monetaria in funzione degli andamenti dell'economia reale, quale quella indicata per esempio dalla nota “regola di Taylor”, suggeriva che avrebbe dovuto aumentare i tassi di interesse. Lui però non lo fece e mantenne discrezionalmente basso il costo del denaro. È proprio così che continuò a gonfiarsi la bolla immobiliare, la “madre” dei mutui sub-prime, quelli che poi avrebbero innescato la crisi finanziaria del secolo. Una esperienza simile si ebbe nella seconda metà degli anni '90, quando la politica monetaria troppo accomodante favorì la cosiddetta bolla delle dot com, che sarebbe poi scoppiata alla fine del decennio.

La politica monetaria è uno strumento troppo importante e troppo potente per poterlo gestire con discrezionalità nell'illusione di “governare” la complessità del sistema economico e finanziario. La politica monetaria deve essere gestita con regole di condotta chiare e credibili, che “leghino le mani” al banchiere centrale. Ogni deviazione discrezionale dalle regole può avere conseguenze gravi sulla stabilità monetaria, finanziaria e dell'economia. Il banchiere centrale deve legarsi le mani anche perché, proprio come fece Ulisse, deve resistere al richiamo delle sirene. E così, oggi, le banche centrali sono sotto uno scacco matto che minaccia di spazzare via non solo le regole monetarie ma l'indipendenza stessa della politica monetaria dal potere politico. È a rischio, cioè, uno dei traguardi più importanti dell'architettura economica e istituzionale dello stato libero e moderno. E questo, sia ben chiaro, non è il portato recente della grande crisi finanziaria. È l'esito di una partita a scacchi iniziata consapevolmente ma incautamente venti anni fa.