Il teatrino delle riforme si trascina secondo un prevedibile copione.

L'obiettivo del PD è di tenere in piedi la logica dei due forni, per costringere Berlusconi a tener fede ai propri impegni, non per aprire a Grillo uno spiraglio in un accordo, che così com'è (sempre che tenga), al PD va benissimo e che eventuali modifiche renderebbero più difficile da conseguire e da difendere.

La strategia del M5S è quella di far pesare sul PD e pagare a Renzi le scelte più discutibili e impopolari dell'accordo con il Cav., a partire dalla "nomina" dei deputati, non di sostituirsi al Caimano come contraente di un accordo per definizione compromissorio e al ribasso (come da quelle parti si giudica qualunque intesa che non fotocopi il loro cosiddetto programma).

La strategia di Berlusconi è quella di dar corda a Renzi per averne abbastanza da poterlo impiccare, sfilandosi al momento decisivo (Monti e Letta ne sanno entrambi qualcosa). Il voto in prima lettura sulla riforma costituzionale, anche contro i lealisti-malpancisti, serve per accreditare il "delinquente", non per legargli le mani per il prosieguo della legislatura. Fino al quarto voto (se quattro ne basteranno) delle camere sulla riforma costituzionale, Berlusconi conserverà la rendita assicurata dal Consultellum, che al Senato lascia spazio solo al PD, al M5S e a FI, oltre a una manciata di senatori leghisti. E non rinuncerà a questa rendita solo per ragioni patriottiche.

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Il paradosso di questo gioco, che è decisivamente serio perché impegna le sole tre forze politiche veramente "vive" e rappresentative di qualcosa, oltre che di qualcuno (al netto della frangia super-lepenista di Lega e FdI), è che non c'è niente di serio né di essenziale nelle posizioni in cui i protagonisti della commedia si sono arroccati. In particolare, la discussione in corso sull'elettività/non elettività del nuovo Senato è, da qualunque parte la si guardi, pura fuffa propagandistica. I "principi non negoziabili" che i contendenti imbracciano contro gli avversari sono un concentrato di luogo-comunismo da volantino.

Del nuovo Senato che dovrebbe sopravvivere alla fine del bicameralismo perfetto è ancora di fatto impregiudicato tutto l'essenziale (a partire dall'estensione e dalla rilevanza delle sue competenze legislative, oggi né esclusive, né determinanti su nessuna materia, neppure quelle lato sensu "territoriali") e tutta la discussione continua invece a vertere sulla sua composizione e sul meccanismo di scelta dei futuri senatori (che è logicamente l'ultimo dei problemi, cioè quello da affrontare per ultimo, secondo un principio di coerenza). In un sistema non paritario, né l'elettività della seconda camera è in sé una garanzia di democraticità, né la non elettività è una garanzia di efficienza.

Né l'elettività, né la non elettività inoltre misurano il grado di integrazione federale di un sistema di governo o la rilevanza politico-istituzionale della camera "territoriale". Né l'elettività, né la non elettività poi risolvono il problema del ruolo e degli equilibri della futura camera delle autonomie dopo un quindicennio di federalismo à la carte, che rischia comunque di trasformare anche il prossimo Senato in una sorta di ingovernabile speakers' corner delle rivendicazioni locali.

Prima di considerare la questione dei nuovi senatori - a maggiore ragione se ci si vuole incamminare verso il modello ampiamente prevalente in Europa di una camera alta non elettiva - non bisognerebbe avere le idee un po' più chiare sul nuovo Senato? Se no si rischia di fare solo un buco, pensando che intorno ci cresca "naturalmente" una ciambella.

@carmelopalma