La Corte Suprema americana, alcuni giorni fa, ha negato al governo argentino la revisione di una sentenza che lo condanna al pagamento di una cospicua somma in favore di alcuni hedge fund americani. Si tratta di vecchi titoli del debito sovrano dell’Argentina, emessi prima del default del 2001, da rimborsare per quasi un miliardo e mezzo di dollari. È la classica scintilla nel bidone della benzina.

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Le rimostranze del presidente argentino, che accusa i fondi di essere soltanto degli speculatori senza scrupoli, responsabili di un possibile nuovo default del debito, non sono completamente prive di fondamento: è vero che la pretesa dei fondi americani ha evocato lo spettro di un nuovo default. Ma non sarà certo la cifra da sborsare a materializzarlo, ed è ridicolo pensare a presunti complotti dei mercati finanziari internazionali. La fiducia degli investitori internazionali e degli stessi cittadini argentini è minata molto più dalla crisi dell’economia reale. Una crisi della quale sono concausa le scelte sbagliate di una politica economica troppo populista e miope

Questo episodio segnala che, forse, una fase della storia economica del paese sudamericano sta per arrivare al capolinea. Con l’esperienza argentina va in frantumi l’illusione che i default siano un colpo di spugna definitivo sul passato. I colpi di spugna non sempre riescono alla perfezione. Lasciano spesso strascichi che vengono fuori nel momento meno opportuno, e che sporcano parecchio la pezza quando ce la ripassi sopra. Cade anche l’illusione che dopo il default si può crescere aumentando la spesa pubblica senza preoccuparsi del sistema produttivo e della sua competitività, e che basta alimentare tutto con la stampa indiscriminata di moneta

Sono parecchi gli investitori che oggi hanno ancora in mano i vecchi titoli del debito sovrano argentino, quelli emessi prima del 2001, i cosiddetti “holdout”.  Molti ne sono in possesso perché si rifiutarono di ricevere in cambio i nuovi bond svalutati. Chi accettò la proposta di conversione, infatti, dovette rinunciare a circa il 70 per cento del proprio credito originario! Lo fece ritenendo che fosse il minore dei mali e perché non aveva tempo e denaro da impiegare in pendenze giudiziarie internazionali dall’esito incerto. Chi non aderì alla proposta si affidò alle corti di giustizia competenti per ottenere il rimborso integrale dei vecchi titoli. Si tratta per esempio di un certo numero di risparmiatori italiani che sono ancora in attesa dell’esito arbitrale presso la Banca Mondiale.  Anche molti speculatori ne sono in possesso, perché all’indomani del default, quando i crediti verso lo Stato argentino erano dati praticamente per spacciati, cominciarono ad acquistare sul mercato a prezzi stracciati i titoli del debito sovrano fallito, in alcuni casi anche al 20 per cento o meno del valore nominale. E ciò proprio nella prospettiva di intentare causa, ottenere un rimborso superiore e lucrare sulla differenza. Diversi hedge fund, in grado di sostenere le spese legali e i tempi lunghi delle cause giudiziarie, acquistarono i vecchi titoli sul mercato. Alcuni aderirono alla conversione subito dopo, ottenendo oltre il 30 per cento del valore nominale, cioè almeno un 10 per cento in più di quello pagato sul mercato. Altri hanno atteso con pazienza l’esito finale delle cause per vedersi riconosciuto il 100 per cento del valore nominale! Che a fronte di un investimento iniziale del 20 per cento significa un rendimento di tutto rispetto.

È proprio contro una di queste sentenze che il governo di Buenos Aires era ricorso in appello presso la Corte Suprema americana. Ma l’appello è stato rigettato e ora l’Argentina dovrà rimborsare i fondi in tempi stretti.  Il governo argentino ha sempre sostenuto che a causa di questo ulteriore esborso, considerati gli altri impegni finanziari in calendario, il paese potrebbe trovarsi a corto di liquidità. E ha agitato più volte lo spauracchio del default come deterrente alle richieste avanzate dai fondi e per convincere la Corte Suprema a modificare il verdetto.  Ora che la decisione è presa, però, sottrarsi completamente alle richieste dei giudici non è una strada percorribile. La sentenza di condanna, emessa da un tribunale di New York, in teoria, non ha potere coercitivo formale nei confronti del paese sudamericano. Tuttavia, per i pagamenti periodici delle cedole sui titoli pubblici, il tesoro di Buenos Aires si serve di una banca americana con sede proprio a New York. E ciò rende facile per i giudici congelare i fondi presso la banca stessa bloccando i pagamenti delle cedole. 

In poche parole, se non ottempera alle richieste del tribunale americano, la prospettiva di un default tecnico diventa molto concreta per l’Argentina, con ripercussioni dannose sull'immagine e sulla credibilità del governo in carica, impegnato a recuperare la fiducia degli investitori internazionali. Per questo sarebbe prudente concordare con i fondi la soluzione meno gravosa possibile ed estinguere questi debiti pregressi senza provocare troppo chiasso.  A preoccupare di più è l'eventualità che la sentenza costituisca un precedente pericoloso per gli investitori che all’epoca accettarono la conversione, e che ora potrebbero cambiare idea intentando nuove cause per riavere indietro anche loro il 100 per cento dei vecchi crediti. In queste condizioni è probabile che prima o poi, dopo avere raschiato il fondo del barile, l’Argentina andrà incontro a un nuovo fallimento guadagnando un primato poco invidiabile: il primo paese nella storia a fare default e ristrutturare il debito due volte nel giro di appena un decennio o poco più. 

Sarà per questo che, dopo l’annuncio della Corte suprema americana, Standard & Poor’s ha rivisto al ribasso il proprio rating sull’Argentina portandolo dal già scarsissimo CCC+ a CCC-, che in altri termini decreta la soglia del fallimento.  È una brutta gatta da pelare per il governo di Christina Kirchner. Le elezioni politiche del 2015 sono vicine e la sfida della campagna elettorale, già complessa da gestire, potrebbe diventare veramente ardua. Ma il peggio è che il rischio di un eventuale default sovrano è solo la cartina da tornasole di una situazione generale del paese tutt’altro che rosea. La vera polveriera sulla quale giace il governo argentino non è tanto l’ammontare dei debiti pregressi quanto l’economia reale, dalla quale provengono segnali non proprio rassicuranti, e che il governo cerca di celare in modo sempre meno efficace e più grottesco.  È vero, infatti, che da oltre un anno il Fondo Monetario Internazionale ha intimato all’Argentina di correggere i propri dati statistici ufficiali e di renderli rispondenti all’effettivo andamento dell’economia, per ristabilire la necessaria trasparenza nei confronti dei cittadini, degli investitori e delle istituzioni internazionali. Il confronto dei dati ufficiali del governo, della banca centrale e dell’istituto nazionale di statistica, con gli andamenti effettivi evidenzia discrepanze a dir poco imbarazzanti. Il tasso di inflazione, per esempio, è ampiamente sottostimato dal governo. Le statistiche ufficiali riportano un’inflazione intorno al 10 per cento, mentre secondo le rilevazioni non ufficiali i prezzi al consumo crescono in media del 20 - 25 per cento all’anno. Il PIL reale, al quale le statistiche governative attribuiscono una crescita intorno al 2 per cento, in realtà viaggia in territorio negativo.  Chissà se in tutto questo c’entra anche il licenziamento in tronco, qualche anno fa, del responsabile dell’istituto nazionale di statistica argentino. D’altro canto, anche Roberto Lavagna, il ministro che gestì la ristrutturazione del debito e sganciò il peso argentino dal dollaro ridando fiato all’economia, si dimise in polemica con l’allora presidente Nestor Kirchner riguardo alla gestione della banca centrale e della politica monetaria. 

Gli speculatori saranno pure degli avvoltoi, e i loro comportamenti, benché razionali, possono anche apparire odiosi. Ma se quanto abbiamo detto è vero, una nuova crisi del debito argentino non sarebbe colpa tanto del miliardo e mezzo da pagare agli hedge fund americani, quanto delle pessime prospettive di un paese con l’economia di nuovo a pezzi e soprattutto con un governo che mina gravemente la fiducia di cittadini e investitori truccando i numeri delle statistiche ufficiali. Il populismo è sempre stato molto convincente e non è escluso che riesca a mischiare le carte a proprio favore ancora per un po’. Ma i nodi sono arrivati al pettine, e questa volta, se ci sarà un altro botto, sarà molto più difficile dare la colpa alla scintilla e assolvere chi ha lasciato incustodito il bidone della benzina.