Da due giorni Mario Monti si è insediato come componente straniero dell'Accademia di studi morali e politici dell'Institut de France. Succede all'ex presidente ceco Vaclav Havel, morto alla fine del 2011. Havel e Monti sembrano divisi da tutto e accomunati solo da un'esperienza di governo, straordinaria in entrambi i casi, ma di assai diversa straordinarietà; il primo per avere guidato la "rivoluzione di velluto" di Praga, che lo portò, nel giro di pochi mesi, dalla galera alla presidenza e in seguito per avere accompagnato, anche dopo la divisione dalla Repubblica Slovacca, l'integrazione europea e atlantica della Repubblica Ceca; il secondo per essersi inventato tutore di un paese alle prese con il duplice default, politico e finanziario, della Seconda Repubblica, nel pieno della tempesta perfetta che stava travolgendo l'Europa mediterranea e minacciando la tenuta dell'eurozona.

Peste Manzoni

Per il resto, però, i personaggi sembrano agli antipodi. L'agitatore underground dei "senza potere" e il rappresentante dell'establishment economico-finanziario. Eccentrico e pop il primo, istituzionale e paludato il secondo. Idealistico ed estremistico Havel (nella dissidenza nonviolenta degli anni '70 come esercizio di "vita nella verità" e negli entusiasmi filo-atlantici degli anni '90 che lo fecero apparire un uomo di Washington nel cuore dell'ex impero sovietico), sobrio e moderato Monti, anche nella pedanteria brussellese e nella diffidenza per l'o di qua o di là della logica bipolare. A legare i due personaggi non è l'identità e lo stile politico, bensì qualcosa di più casuale e al contempo profondo.

Havel è stato il simbolo e il censore di un Paese prima geloso della propria identità europea (per il padre di Charta '77, Jan Patocka dal cuore di Praga pulsava l'idea filosofica dell'Europa) e poi convertito alla resistenza euroscettica. Ma è stato innanzitutto la Cassandra di un'Europa stupidamente persuasa che la fine del comunismo sovietico l'avesse liberata da tutte le minacce. Un'Europa sempre più ripiegata sui confini interni e noncurante dei confini esterni, impensierita dai costi dell'integrazione e indifferente ai rischi strategici della possibile disintegrazione di un'unione politica così pericolosamente esposta verso est. Agli europeisti "adulti" del post-guerra fredda il suo allarme appariva più il sintomo di una sindrome post-traumatica - il vecchio carcerato che vede ovunque l'ombra dei vecchi carcerieri sovietici - che un'analisi politica realistica e profetica delle debolezze europee.

Monti per quasi due anni ha retto manzonianamente il timone di un'Italia perennemente in bilico tra Don Ferrante e Caterina Rosa, un'Italia sempre incline a considerare la peste accidente o delitto, mai malattia. Qualunque peste, e così pure quella per cui Monti fu chiamato a soccorrerla. È stato un presidente senza garanzie (se non quella del Quirinale), ma chiamato a garantire per Roma a Bruxelles e per Bruxelles a Roma, per qualche tempo forte di un consenso trasversale e quasi fideistico, da "salvatore", poi evaporato di fronte ai costi della salvezza – man mano che il rischio della disgrazia si allontanava – e all'equivoco di una "salita in campo" a cavallo tra l'ambizione e la riluttanza politica. Ha raccontato agli italiani con disarmante ingenuità e pedagogica durezza – "la casta siamo noi cittadini" – la verità della loro malattia e dei possibili rimedi e li ha visti votarsi in massa agli esorcisti e ai santi guaritori dell'antipolitica, intonando, proprio come Caterina Rosa, "il grido della carneficina" contro gli untori.

Insomma, anche Monti è stato suo malgrado una Cassandra, che ha ammonito inutilmente gli italiani, come Havel i cechi e gli europei, sui rischi mortali del "vivere all'interno di una menzogna". Che sia chiamato ora a succedergli all'Institut de France sembra più di una semplice e meritata coincidenza, anche se – direbbero i suoi nemici – il testimone passa semplicemente da un perdente a un altro.