berlusconi sorriso

Per più di vent'anni Silvio Berlusconi è stato ritenuto il populista per eccellenza, ma populista non lo è mai stato: è stato, al contrario, un leader liberale, quantomeno nella prima fase della sua ascesa politico-mediatica, quando la sua "narrazione" era semmai demagogica (la demagogia è altra cosa dal populismo, per quanto le due cose si abbinino spesso e volentieri).

Ma si trattava, allora come oggi, di comunicazione – si transitava dal parlamentarismo proporzionale a quello maggioritario: la nostra democrazia conobbe una "presidenzializzazione" de facto e di conseguenza quella spettacolarizzazione che avrebbe fatto irruzione a prescindere –, comunicazione che trainava e non esauriva la piattaforma politico-ideologica (tardivamente) thatcheriana del primo berlusconismo.

Quella liberale fu, com'è noto, una rivoluzione mancata, ma la degradazione dei contenuti delle origini a mero involucro azzurro di un progetto politico-culturale ormai chiaramente verticistico-personalista e nulla più non determinò un'involuzione populista o perfino sovversiva dello stesso: l'europeismo, l'atlantismo e più generalmente la "produttività" dei primi anni 2000 (la legge Biagi, il tentativo di introdurre il premierato nel nostro sistema politico-istituzionale ecc) cominciarono a sbiadire in favore di un vuoto pneumatico inevitabilmente riempito dalla centralità assoluta dello stesso Berlusconi, attorno alla cui vicenda imprenditoriale e personale venne indirizzata l'attenzione dell'intera pattuglia politica e mediatica al suo seguito; il 2008, nella fattispecie, segnò l'avvio di una fase edonistica della parabola del Cavaliere (si potrebbe dire, umoristicamente, che si passò dal liberalismo al libertinaggio) e fu da allora che cominciarono i frequenti richiami alla "legittimazione del popolo" di cui si è servito per squalificare tutte le inchieste a suo carico.

Tali richiami possono essere letti come una strategica assolutizzazione del "principio democratico" (governo del popolo) in opposizione al "principio liberale" (governo del diritto), ma possono essere letti anche nell'ottica esattamente opposta: una parte politicizzata e antigarantista della magistratura faceva vacillare lo stato di diritto con inchieste a orologeria ai danni del presidente del Consiglio. Ognuno la pensi come vuole circa quel periodo – di certo buonsenso vorrebbe che venissero respinte in quanto terribilmente ingenue o strumentali le letture eccessivamente unilaterali, sia quella che vede nella totalità della magistratura una neutralità e una buona fede assolute e perciò sovraumane, sia quella che individua in Berlusconi la versione postmoderna di San Sebastiano.


Comunque la si legga – si diceva – neanche allora si trattò di populismo: richiamarsi alla legittimazione popolare della maggioranza degli elettori è, più che populismo, una forma strumentale e interessata di democraticismo.

Il populismo, in breve e in considerazione del suo significato attuale, propone e assolutizza la dicotomia fra società civile e società politica, idealizzando la prima (abusivamente trattata alla stregua di un'entità monolitica, alla faccia delle scienze sociali, e ri-battezzata "popolo") e demonizzando la seconda, dunque squalificando la democrazia rappresentativa in favore di quella diretta; il popolo in questione è, va da sé, quello nazionale, e in ciò il populismo si oppone a qualunque forma di cosmopolitismo: dopo aver dunque individuato un nemico del popolo interno – le élite –, se ne individua uno esterno, magari gli extracomunitari (in tal caso il populismo è orientato a destra) o le autorità sovranazionali. Tutti questi elementi, lo si ribadisce, sono sempre stati estranei al politico Silvio Berlusconi, additato come populista se non come nemico tout court della democrazia liberale.

Oggi che i populisti sono arrivati davvero, Berlusconi è visto come argine agli stessi, sia in chiave antisalviniana che, soprattutto, in chiave antigrillina. Non è stata la riabilitazione penale, provvedimento per sua natura "vacillante" e comunque circoscritto alla sfera giuridica, a restituire agibilità politica a Berlusconi dopo il quinquennio di radicalismo antiberlusconiano 2008-2013, ma l'exploit di Grillo e l'inedita egemonia della Lega, per la prima volta nella sua storia azionista di maggioranza della coalizione di centrodestra.

Naturalmente il Cavaliere si trova bene nei panni "merkeliani" che gli hanno cucito addosso, ma non c'è stata alcuna pur suggestiva trasfigurazione di Berlusconi da pericolo per la democrazia – come i soliti intellettuali engagé ribadivano anni fa, salvo poi salire sul carro del partito più antiparlamentarista dai tempi del Fronte dell'Uomo Qualunque – a risorsa della stessa.

Sarebbe semmai interessante analizzare la dicotomia fra il "berlusconismo politico" e quello mediatico, che è stato – esso sì – una formidabile risorsa per i populismi: il grillismo è (anche) un sottoprodotto del Grande Fratello (non per nulla Rocco Casalino occupa un ruolo rilevantissimo nell'oligarchia a Cinque Stelle), avendo sdoganato il qualunquismo, la volgarità quando non il semianalfabetismo, perché sapere poco è un po’ una certificazione di autenticità… così come la ridicolizzazione e la colpevolizzazione delle élite politiche e scientifiche è molto da Iene e da Striscia la Notizia; il leghismo, a sua volta, ha capitalizzato tutto il prime time "gentista" e xenofobo delle reti mediaset, i cui palinsesti sono stati opportunamente rivisiti.
Sarebbe dunque interessante un approccio simile alla figura di Berlusconi, demiurgo di se stesso ma anche dei suoi competitor all'interno e al di fuori della competizione.

Ma il nostro establishment mediatico-culturale è al momento troppo mediocre per abbandonare la confortante lettura manichea della realtà socio-politica italiana che ci propina da quasi trent'anni, iscrivendo e cancellando il nome dei singoli soggetti alternativamente nella colonna dei "buoni" e dei "cattivi".