federalismo fiscale sito

Ciò che non fa il pubblico lo fa il pubblico. Questo, lo dobbiamo riconoscere, è il fondamento condiviso della sussidiarietà verticale italiana, di una disarticolazione del potere centrale che ha l’unico scopo di sostituire una burocrazia di stipendiati a un’altra che porta una “uniforme” più vicina ai colori del proprio territorio.

Dallo Stato alle Regioni e da queste agli Enti locali; un trasferimento di funzioni – e non il riconoscimento di un proprio specifico e naturale – che non assicura buone prassi ma solo moltiplicazione dei rischi e delle spese. Siamo sicuri, quindi, che sia questa la sussidiarietà auspicabile? Un atteggiamento psico-politico e culturale miope e diffusissimo, io credo, concepisce come fumo negli occhi un diverso e più auspicabile tipo di sussidiarietà: la formazione spontanea di sotto-società e corpi intermedi associati che, spontaneamente, decidano di perseguire fini pubblici pur occupandosi autonomamente dei mezzi necessari e dei presupposti culturali di fondo.

Tale autonomismo in Italia e nonostante il novellato (nel 2001) art. 118 della Costituzione ( […] Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà) è considerato – da destra come da sinistra – un’impropria ed illegittima intromissione nei compiti del Leviatano e dello Stato provvidenza. Così nella scuola e nella formazione come nel campo della assistenza alla persona, come nella previdenza, come nell’assicurazione di servizi essenziali per le comunità.

Qui non è in discussione, ovviamente, la questione insensata se lo faccia meglio il pubblico o il privato mentre è davvero ora che si apra un serio dibattito sulla proficua messa in competizione di istituzioni ed enti e sulla complessità del concetto di “spirito pubblico” che non può ridursi solo all’interesse, per quanto meritorio ed indispensabile, verso lo Stato. Le comunità volontarie al servizio delle arti, della scienza, della cultura, del patrimonio collettivo, dell’ambiente, degli usi civici e di comunità, sono state tradizionalmente il frutto dell’ordine spontaneo auto generatosi in società; comunità volontarie alle quali la pervasività dello Stato, soprattutto nell’ Europa continentale, ha da tempo dichiarato guerra – e qui citare Napoleone è d’obbligo - sotto l’egida della uniformità contro i “poteri diffusi”, della astrattezza livellante del Codice e del culto dell’amministrazione centralizzata.

In fondo, è di tutto questo che Tocqueville parla nella “Democrazia in America” annotando così: “Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli stati uniti un’associazione”. Hayek, poi, lo continuò a constatare – come fenomeno aggravato - negli anni 60 del Secolo breve, fino a certificare come l’ipertrofia governativa aveva finito per contagiare del tutto anche il mondo anglosassone nel quale, progressivamente, è sempre più venuta meno la spontanea partecipazione alla vita pubblica attraverso lo sviluppo di organizzazioni volontarie per fini pubblici.

È un bene questo riduzionismo statalista? È bene per lo Stato? Esperito a più livelli fallimento del dirigismo burocratico ed i limiti del monopolio (pubblico o privato poco importa) la cultura comune dei corpi intermedi non riesce, purtroppo, a imporsi come formidabile argine, a tutela dell’individuo, a fronte delle pretese onnivore delle burocrazie anonime. Ciò che si ha la forza e l’industria di farlo nelle comunità minori – è questo l’assunto - non è giusto venga rimesso ad una società più alta (o più grande) e lontana. L’interventismo “dall’alto”, infatti, dovrebbe rispondere ad una necessità aggiuntiva e non sostitutiva: perché la sostituzione imposta (o elemosinata, è lo stesso) è quella derivante non solo dalla “legge” ma anche dalle distorsioni di mercato provocate, ad esempio, dall’abuso di posizione dominante ed entrambe le forme generano scarsa propensione a rischio, assenza di intrapresa, oblio di orgoglio ed impegno.

Non è quello che, in fondo, stiamo quotidianamente sperimentando nel nostro Sud che proprio a causa dell’ipertrofica presenza di un’economia pubblica pervasiva soffre ormai della malattia endemica del clientelismo, fino all’effetto di ritenere coram populo la società meridionale come irredimibile, condannata ad essere solo sfogo di consumo per mercati ed offerte altrui? I primi meridionalisti ci hanno creduto veramente mentre Salvemini, più concreto, ne tratteggiò spietatamente l’inadeguatezza: la borghesia di rischio quale fenomeno collettivo capace di impulso propulsivo di crescita e sviluppo, al Sud, semplicemente non è mai esistita. Nel suo “Cocò all’Università di Napoli” del 1909, lo storico pugliese chiarì perfettamente i termini della questione:

“Nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perché analfabeta, professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati – il così detto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o all’opposizione. E le spese di tutto questo lavoro le fanno sempre alla chiusura dei registri, i contadini”.

Ora, a parte l’esclusione dal voto degli analfabeti e l’estensione di coloro che fanno le spese di tutto questo anche al c.d. “ceto medio”, siamo più o meno nelle stesse condizioni ma, attenzione, per tratteggiare al meglio la complessità del problema, dobbiamo interrogarci anche su questo: il dominio del gruppo amministrativo dominante, la riduzione dell’economia ad economia pubblica di vario genere non è dovuta anche ad un oggettivo pregiudizio “statale” verso i rari tentativi di discostarsi da questo cliché? Ad una presunzione d’inadeguatezza e guapperia ontologica che rischia di portare solo ad effetti defaticanti e alla conseguenza di sopprimere i pur deboli vagiti della piccola tigre mossa dall’istinto competitivo e dalla fame sana per il profitto?

A me pare che proprio tale mentalità nemica dell’autonomia (su tratteggiata sub specie sussidiarietà orizzontale) e dell’indipendenza (riconosciuta come libera impresa di rischio) – sempre al Sud – si nasconda anche dietro il proliferare applicativo di strumenti sempre più pervasivi di controllo pubblico dell’economia libera, pur legittimamente motivati da esigenze di Giustizia e di controllo del Territorio.

Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, ad esempio, nell’ultimo anno, sono partite più di 100 interdittive antimafia. Un numero significativo che conferma un trend in crescita. Lo scopo nobile dello strumento è questo: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», così ha sentenziato il Consiglio di Stato.

E sul principio, ovviamente, nulla quaestio. Il problema, però, è come al solito nei dettagli e l’interdittiva prefettizia che esclude un’impresa dai rapporti economici con la P.A, ha natura di provvedimento preventivo che prescinde totalmente dall’accertamento della responsabilità penale dei singoli. È il sospetto, dunque, che governa l’azione discrezionale della Prefettura che, così, può legalmente recidere i rapporti contrattuali o di concessione tra imprese e Amministrazione a prescindere dal processo e dalle sue garanzie di difesa nel merito.

Un’impresa, quindi, può essere così esclusa dai bandi pubblici; e ciò è chiaramente positivo e auspicabile quando emergono chiari gli elementi concreti che consentono di liberare gli appalti dall’infiltrazione criminale ma, in tanti casi, data appunto la discrezionalità dell’istituto che, fondandosi esclusivamente sulle informazioni di polizia, prescinde dall’accertamento giudiziale compiuto, ciò può condurre al fallimento anche un’ azienda sana coinvolta, come in un girone dantesco, nei meandri dei ricorsi alla Giustizia Amministrativa senza, appunto, potersi difendere nel merito di accuse personali e penalmente rilevanti che, come tali, necessitano di prove. Dato il sistema, non pochi sono i ricorsi vinti ma, spesso, si tratta di vittorie di Pirro intervenute a crack già avvenuto e a licenziamenti effettuati.

I fatti scatenanti l’intromissione prefettizia nel mercato sono ormai codificati: legami di parentela e frequentazioni poco consigliabili. Ma basta questo a decretare il contagio mafioso? Se ciò bastasse ad essere criminalizzato non sarebbe la singola impresa, il singolo caso, ma interi territori alle prese con il proprio marchio di fabbrica e una popolazione stigmatizzata dai cognomi pesanti. E proprio questo dispositivo genera un circolo capace di sottrarre una parte rilevante dell’economia dal consesso civile per farla precipitare nel sospetto di Stato … a prescindere dai processi!

Certo che così delineato il contesto contemporaneo nel quale dovrebbe essere agevolata e sorgere l’agognata borghesia meridionale sembra porre in secondo piano ogni riflessione su sussidiarietà e libertà d’impresa e, pur da approcci differenti e con motivazioni meritorie, l’effetto rimane identico nella via d’uscita apparentemente obbligata: l’unica soluzione è – posta irredimibilità - concentrarsi sulla domanda e non sull’offerta e potenziare l’economia pubblica per non rischiare una crisi d’ordine pubblico.

E proprio qualche settimana fa il ministro della Giustizia Orlando chiamato ad alcune riflessioni sul Meridione e sul mancato sviluppo, è tornato esplicitamente a chiedere l’applicazione della vecchia ricetta, aggiornata evidentemente all’oggi: si tratta – ha detto – di limitare il Patto di stabilità al Sud, di eliminare il blocco del turn over e di consentire alle Amministrazioni di assumere a prescindere dai fabbisogni, continuando a trasformare l’accesso al lavoro pubblico in un ammortizzatore sociale surrettizio che, però, premia sempre i soliti noti, gli amici degli amici politici, le famiglie dedite alla clientela, i cultori del voto di preferenza quale merce di scambio e di ricatto, non di certo le miriadi di famiglie per bene, i tantissimi “uomini dimenticati” - potremmo dire parafrasando Amity Shlaes - che da sempre sono esclusi dall’economia politicante e drogata che non sa che farsene di bravi lavoratori e di gente fiera ma solo di disperati in carriera, di professionisti del piagnisteo e della piazza agitata ad arte, pronti a svendersi in vista delle elezioni.

Chissà cosa ne penserebbe Salvemini? Il suo Cocò continua, purtroppo, a trovare posto tra le pieghe dell’amministrazione in house e partecipata mentre i nostri universitari sono costretti a riempire i campus delle accademie del Nord o a pagare gli alti affitti dei soliti profittatori in attesa di essere assorbiti dall’unica sede del capitalismo italico, quel Nord avanzato che già Rosario Romeo – nel suo “Risorgimento e Capitalismo” (1959) – aveva riconosciuto come locus naturale della produzione nazionale, maturato grazie alla necessaria concentrazione di capitali attuata tra i due Secoli ma che, col tempo, avrebbe concorso anche allo sviluppo industriale del resto del Paese. Bene, del Paese, purtroppo, è continuato a restare solo il “resto” e la responsabilità, occorre affermarlo con franchezza, è tutta nostra, tutta del Sud, senza sconti.

Ma detto questo, sgombrato il campo da ogni pur minimo ristagno di sterile romanticismo politico ed istinto di auto assoluzione, il problema non scompare ed è il problema essenzialmente dei meridionali – come affermò causticamente Bobbio – ma, come tale, non richiede ghettizzazione e criminalizzazione ma sostegno ad un proprio e peculiare che, se non affossato dal paternalismo di Stato, può davvero essere competitivo e produttivo, a prescindere dal conservatorismo spicciolo ed inefficace delle ricette di Orlando et similia.

E se l’alleato di questo grumo identitario ancora in attesa di compiuta espressione industriale non può essere il Nord occupato a tutelare con la questione Settentrionale (in piena applicazione esistenziale della classica categoria associativa/dissociativa amico-nemico) i propri privilegi ed il proprio mercato di sfogo, non potrà che esserlo l’Europa, quella vera, vincente e positiva della tutela del mercato, dello stato di diritto, della concorrenza e nemica di tutti i monopoli; un’ alleata naturale, quindi, per un futuro non più rinviabile.

Ed anche in tal senso vanno pensate - da Sud - le liste comunitarie proposte da Macron e, prima di lui, da Pannella, quale strumento sovra statutale per giungere davvero a quegli Stati uniti d’Europa che, per l’appunto, o saranno anche e soprattutto mediterranei o, semplicemente, non saranno.