pane e cioccolata

L’immigrazione sembra destinata a segnare la prossima campagna elettorale: basta guardare i giornali del centrodestra con i loro titoli sempre più esplicitamente xenofobi, ascoltare le parole d’ordine di Salvini contro la sostituzione etnica e l’invasione straniera o le insinuazioni di Di Maio sulla svendita del paese e le ONG "taxi del Mediterraneo".

Oggi per essere popolari, come minimo bisogna dire: “Io non sono razzista, ma certo qualcosa bisogna fare e, soprattutto, bisogna capire le ragioni di chi ha paura”. Se dici che non bisogna cavalcare la paura, ma mettere le energie per organizzare l’accoglienza e l’integrazione, e aprire canali regolari per i migranti economici, finisci fuori gioco, al bar come in qualsiasi trasmissione televisiva. Se poi uno prova a dire ai leghisti che anche dal nord fino alla generazione dei nostri genitori moltissimi emigravano e non erano trattati benissimo, apriti cielo: si inalberano, dicono che non è vero, che i nostri andavano per lavorare e che comunque neri e islamici sono diversi, non si possono integrare... e che il razzismo ovviamente non c’entra.

Ma come erano trattati quegli italiani che andavano all’estero a lavorare, non negli USA o in Australia ma nella vicina Svizzera, dove ancora oggi alcuni cercano di alimentare la diffidenza nei confronti dei frontalieri lombardi?

James Schwarzenbach era un politico svizzero che si batteva contro “l’inforestierimento” della Svizzera da parte degli immigrati soprattutto italiani: il suo referendum del 1970 per ridurre i permessi di lavoro per immigrati nella Confederazione Elvetica ottenne un record di partecipazione: vinsero i No, ma i favorevoli furono il 46%. Schwarzenbach, rivolto a genitori, mogli, figli degli immigrati italiani, usava un linguaggio simile a quello dei politici anti-immigrati nell’Italia di oggi: “Braccia morte che pesano su di noi, che minacciano il nostro benessere. Dobbiamo liberarci del fardello, dobbiamo respingere dalla nostra comunità chi, chiamato per lavori umili, si guarda intorno e migliora la propria condizione minacciando in questo modo la tranquillità dell’operaio svizzero.”

Nel 1969 Daniel Roth, proprietario del periodico “Schweizer Spiegel”, spiegava: «Non sono razzista, sono realista, gli operai stranieri costituiscono una massa informe che non può integrarsi per tradizioni culturali, religiose e politiche e non è colpa nostra se provengono da paesi dove il disordine sociale è norma, dove scioperi, manifestazioni, rivolte sono all’ordine del giorno. La nostra è una piccola nazione tranquilla e tenere in casa gente del genere rappresenta un pericolo. Conosco bene la razza mediterranea e dalla Provenza in giù esiste un confine, un popolo diverso, gente in grande parte sottosviluppata e che in piccola parte appena può ricordare gli svizzeri». Nel volume Storia dell’emigrazione italiana edito da Donzelli o ne L’orda di Gianantonio Stella, si trovano questi ed altri spunti. È quello che in Svizzera molti pensavano degli italiani, del sud ma anche del nord, come i valtellinesi.

Non è certo in discussione la civiltà giuridica e democratica della Confederazione Elvetica e non avrebbe senso fare analogie meccaniche, ma queste storie sono un monito. Sia chiaro, non un monito per Salvini o Di Maio e dei tanti epigoni degli Schwarzenbach e dei Roth, non sentiranno ragioni e cercheranno di convincere con la loro retorica spregiudicata e potente gli elettori italiani che hanno ragione a diffidare degli immigrati e che devono affidarsi a loro per “fermare l’invasione” e “la pulizia etnica”, mischiando nello stesso discorso terrorismo, barconi e ius soli.

Il monito è per noi. A non essere corrivi con un riflesso di chiusura anti-stranieri e anti-diversità disancorato dalle condizioni reali, ma ben radicato nell’immaginario. A ricordarci che gli slogan contro gli immigrati che risuoneranno nella campagna elettorale ricalcano pari pari lo stigma antitaliano subito dai nostri genitori in paesi come la Svizzera. Dobbiamo riconquistare uno spazio di razionalità, per proporre politiche sull’immigrazione e sulla sicurezza che considerino le dinamiche reali in corso e anche l’utilità, imprescindibile ormai, di un apporto regolare di lavoratori immigrati.

Dovremmo, ad esempio, ricordare come un mantra che la più grande operazione di “sostituzione etnica” è quella compiuta dagli ultimi due governi di Forza Italia e Lega che tra il 2001 ed il 2009 hanno regolarizzato circa un milione di immigrati clandestini. Una operazione saggia e doverosa, che ha portato legalità e risorse, tasse e contributi, legalizzando centinaia di migliaia di lavoratori essenziali nelle nostre case, fabbriche e fattorie.

E poi ancora ricordare che il proibizionismo non funziona nemmeno sull’immigrazione. Se vogliamo essere credibili nella lotta ai trafficanti di uomini, dobbiamo offrire alle persone ed alle leadership dei paesi di provenienza un meccanismo di partenze regolari. Dobbiamo dire: si può partire ma solo avendo ottenuto alcuni requisiti e secondo quote annuali in Europa per ricerca di lavoro. I fatti, non le suggestioni, mostrano anche come l’immigrazione regolare sia “elastica” rispetto al ciclo economico: durante i periodi di crisi e di calo dell’occupazione i migranti regolari diminuiscono.

Nessuno può pensare che la gestione dei flussi e l’integrazione degli immigrati sia un pranzo di gala. Solo conservando un approccio non ideologico, cercando concretamente di costruire soluzioni condivise a livello europeo mostreremo di “essere in controllo”. Ma a chi tuona e tuonerà contro i diversi che devono tornare ciascuno al proprio Sud sarà bene ricordare che anche noi, da Lampedusa fino alle Alpi, siamo stati e siamo il sud di qualcuno, a cui però abbiamo garantito e garantiamo progresso e ricchezza.

@bendellavedova