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Guardare da una certa distanza uno sconvolgimento storico, anche in un Paese che si crede di conoscere e che in effetti non è troppo diverso dal proprio, porta con sé una quantità di rischi.

Inevitabile una intelligenza non perfetta di fatti, antecedenti, sfumature; e ancora più inevitabile la tendenza a proiettare chiavi di lettura italiane o comunque esterne, e le nostre preferenze o simpatie, che per cose che conosciamo meglio tendiamo ad esprimere con maggiore consapevolezza di mille ambiguità. Un caso tipico è il mare di interventi e pareri sulla vicenda catalana, diventata terreno di opinioni da social, dunque spesso disinformate o affrettate. Appunto per questo voglio staccarmi dagli eventi della giornata di ieri. Il mio obiettivo è storico: perché solo conoscendo l'origine storica dei problemi siamo in grado di valutare meglio questa giornata. Non pretendo di descrivere in modo adeguato tutta la storia della questione, che va avanti da secoli; provare però a raccontarne qualche aspetto importante forse non è inutile.

Anche e soprattutto nell’epoca della postverità tornare ai fatti è urgente. La Catalogna indipendente e a sé stante ha smesso di esistere, nella migliore delle ipotesi, all’inizio del XII secolo. Fino a quel momento c’era un gruppo di contee, pur se almeno nominalmente sottomesse al regno dei Franchi, mentre da allora, in virtù di un’unione dinastica, si trattò di uno stato aragonese-catalano, ossia di una realtà bilingue e ampiamente variegata. Più esattamente: lingue ancora in formazione e non pienamente normate venivano parlate in maniera promiscua e senza che ciò comportasse alcun problema. Dovrebbe essere scontato: si trattava di situazioni assolutamente normali e probabilmente inevitabili in epoche in cui ancora non si possedeva un’idea moderna di nazione.

In seguito, con Fernando d’Aragona, si assiste all’unione personale con la corona di Castiglia e dunque all’inizio di una storia unitaria che è tra le più antiche d’Europa. Aragona-Catalogna sono dunque "soci fondatori" della Spagna, non terre di conquista. In realtà il Re Cattolico è ampiamente criticato dai nazionalisti, che vedono nella sua scelta l’inizio della fine dell’indipendenza. Ma in ogni caso per molto tempo le due monarchie che formano la Spagna mantennero ampie autonomie, e altre erano riservate a entità che avevano una storia a sé (come, per motivi diversi, la regione basca o la Navarra). Dunque, nell’epoca dell’impero su cui non tramonta mai il sole la Spagna è in realtà un articolazione di Spagne, come qualcuno ha detto - che comprendono tra l’altro anche territori ben più diversi tra loro di Castiglia e Catalogna, come quelli italiani o americani.

Le cose cambiano con la progressiva modernizzazione assolutista, che segue anche se più lentamente il modello francese. Veniamo dunque al fatto più interessante, quello effettivamente cruciale per l’indipendentismo attuale. Chi passa da Barcellona l’11 settembre trova celebrazioni pubbliche, e uffici e negozi chiusi. La data coincide, ovviamente, con l’evento del 2001, nonché con il colpo di stato di Pinochet, ma in Catalogna si tratta della memoria di un fatto di tre secoli fa. La cosiddetta Diada, dapprima una riunione di innocui nostalgici e dopo una manifestazione tutto sommato comprensibile dell’orgoglio nazionale, da qualche anno è diventata l’occasione per gli indipendentisti di contarsi.

Generalmente le rivendicazioni politiche trovano il loro riferimento in un preciso fatto storico, sovrainterpretato quale evento mitico. Esso darebbe inizio, in una sorta di gloriosa sconfitta dovuta al tradimento o al numero preponderante dei nemici, all’allontanamento da una condizione privilegiata. La battaglia del piano del Kosovo, la Comune di Parigi, la Resistenza “tradita”, sono alcuni esempi, volutamente diversi, di questa strategica funzione mitica. Per i catalani è un evento apparentemente anodino come la sconfitta del partito austriaco nella guerra di successione spagnola. A guerra di fatto finita, e sia pure tra mille incertezze e retroscena politici, in effetti Barcellona combatté per i propri privilegi ancestrali e per il pretendente al trono austriaco. Ma in un conflitto che in quanto guerra civile fu del tutto trasversale, vi erano volontari da altre regioni delle Spagne. Città catalane lottavano a fianco del Borbone, città castigliane sostenevano la casa d’Austria. E i proclami dei difensori della città non mancavano di ricordare regolarmente che si combatteva per la libertà di tutta la Spagna (casomai, asserivano di temere il dominio franco-borbonico, non quello spagnolo).

Senza dubbio, le autonomie di origine medievale che bene o male erano sopravvissute fino a quel momento vennero annullate. Si tratta in realtà del tipico atteggiamento dell’assolutismo (oltre che in qualche misura della punizione dell’infedeltà dinastica), dunque di un’evoluzione politica assolutamente standard e moderna.

Ma per i catalanisti, in seguito, si trattò piuttosto solo della vendetta dei castigliani. Tutto questo infatti venne riscoperto e utilizzato solo nell’atmosfera del nazionalismo ottocentesco, non diversamente da quanto accadde con molte altre patrie più o meno piccole, dalla Grecia, alla Serbia di cui sopra, alla Scozia (l’esempio classico di una nazione immaginata). Non ho spazio per ripercorrere le fantasie romantiche sulla patria ancestrale catalana, ma si tratta di una falsariga ben nota, in cui nostalgici assortiti trovavano il loro terreno ideale.

E dato che siamo in ambito romantico, una cosa importante da dire è che in questa storia da molto tempo la lingua non era più un fatto rilevante. La letteratura catalana, che aveva conosciuto notevoli espressioni nel corso del Medioevo, come il milanese o il siciliano, anche prima di questi smette di essere praticata. Non c’è un Porta barcellonese, per capirci. Gli intellettuali catalani per secoli scrivono in castigliano, semplicemente. Non esiste in quei tempi felici un’idea vera e propria di lingua ufficiale, ma, de facto, la lingua comune dello monarchia e dell’impero è lo spagnolo. Naturalmente, il catalano confinato all’ambito familiare o contadino e sul bordo della pratica sparizione, viene recuperato, normalizzato, infine man mano imposto con effetti attuali di regolamentazione e imposizione davvero pesanti, dagli intellettuali ottocenteschi e dai loro eredi.

Per chiarezza: la storia che ho riassunto in realtà non significa che da un certo punto di vista i catalani non siano liberi di decidere. Non entro qui nel merito dei paletti posti dalla costituzione spagnola. Da quel punto di vista l’illegalità è chiara, ribadita d’altronde dal totale disprezzo delle regole e delle minoranze con cui il parlamento autonomo ha votato per l’indipendenza. Però ammetto che catalani, così come milanesi, o sardi, o anche marchigiani o pugliesi, se eventualmente sviluppano un sentimento peculiare, possano infine sentirsi nazione e muoversi di conseguenza per realizzare la propria indipendenza.

Ma questa storia descrive il tipo di narrazione inventata per costruire il sentimento nazionale catalano, un mattone fasullo dopo l'altro. L’azione degli intellettuali alla caccia di uno scopo eccitante, anziché semplicemente ma banalmente veritiero e realistico, alla propria funzione, è, come sempre, l’ingrediente fondamentale di questa invenzione. Lo stato spagnolo dopo la dittatura, vergognoso del passato franchista, ha dato amplissima autonomia alle regioni del Paese, specie quelle storicamente attestate. In Catalogna questo ha significato assegnare al governo locale competenze totali nell’istruzione (e i finanziamenti a tutti i media locali). In mano ai nazionalisti questo ha significato un’azione costante ed efficace di indottrinamento.

E questo ci fa giungere alla parte davvero triste, anzi scandalosa. L’indottrinamento ha avuto inevitabilmente bisogno di un’azione capillare nelle scuole, dove si racconta una storia differente da quella che tutti, salvo i fanatici, sanno essere vera. La vergogna degli intellettuali nazionalisti non è diversa da un triste universo orwelliano. La storia inventata alla ricerca di improbabili glorie nazionali, con sprezzo del ridicolo, si accompagna a forme di pressione sociale che dovrebbero preoccupare anzitutto i liberali.

Il peccato grave dello stato spagnolo è stato quello di lasciar correre di fronte a questa falsificazione della verità, per quieto vivere, per il senso di colpa postfranchista, e perché nel sistema elettorale i governi di Madrid avevano bisogno dei partiti catalani. Ora i nodi vengono al pettine, e i nazionalisti con le foto delle vecchiette ferite o dei pompieri (in realtà in quel momento cittadini comuni, perché fuori servizio, ma rimasti in uniforme allo scopo di inscenare l’aggressione istituzionale), strategicamente messi di guardia ai seggi davanti alla Guardia Civil, vincono trionfalmente la battaglia della propaganda. D’altra parte, tutta la loro costruzione ideologica è precisamente questo: propaganda che, ossessivamente ripetuta, cerca di nascondere i fatti. La costruzione di un idealizzato immaginario politico, il vero fattore decisivo, nasconde la vecchia ma sempre efficacissima logica del noi e loro.