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Nella sua rubrica quotidiana sul Foglio, lo scorso 7 settembre Massimo Bordin ha dedicato la sua attenzione e la sua ben nota causticità ad Emma Bonino e alla campagna Ero Straniero promossa insieme a Radicali Italiani e a un cartello composito di associazioni di diversa matrice politica e culturale. Dopo aver segnalato che questa “giusta campagna” non coincide con l’impostazione e le scelte del Governo italiano, Massimo Bordin, infatti, ha invitato la leader radicale a non limitarsi a denunciare limiti e rischi di determinate posizioni politiche ma incalzare chi ne è responsabile sulla base di quelle stesse posizioni magari integrandole.

Si tratta senza alcun dubbio di un’indicazione di metodo utile per tutti. Vale sia per chi governa, sia per chi - come hanno sempre fatto i radicali - si oppone responsabilmente avanzando e formulando proposte e dunque tanto per il ministro Minniti quanto per Emma Bonino. Rispetto a entrambi dovrebbe trovare applicazione anche la regola (particolarmente utile per un buon dibattito pubblico) che impone prudenza nel fare associazioni tra persone e situazioni. L’attuale Ministro degli Interni non può essere confuso con un capo delle SS come viene fatto in queste settimane, e analoga attenzione merita l’ex ministro degli Esteri. Emma Bonino contesta le scelte del ministro degli Interni e in particolare la mancanza di una adeguata cornice di regole e di una piena valutazione della situazione di fatto (che, ovviamente, è qualcosa che precede l’azione del Ministro e che non si è venuta a creare per effetto di quest’ultima) e dunque i modi ed i tempi con i quali ha luogo l’interlocuzione con chi detiene il potere in Libia. Allo stesso tempo si batte perché l’Italia, ed auspicabilmente altri paesi europei, aprano canali legali per l’immigrazione in paesi diversi dalla Libia - con i quali è più realistico ritenere di poter tenere relazioni fondate sulla comune accettazione delle regole dello stato di diritto - anche con lo scopo di ridurre il numero delle persone “indotte” a premere sulla frontiera esterna dell’Unione Europea alla ricerca della protezione umanitaria che probabilmente verrà negata loro.

Tenendo una posizione di questo tipo si espone la storia (e il presente) radicale di Emma Bonino al rischio di essere confusa con quella di Gino Strada facendo dimenticare che una - da commissario europeo - venne fermata dal regime talebano e l’altro, invece, ha sempre ritenuto che non spettava (spetta) alla comunità internazionale (provare a) fermare e cambiare quel tipo di regimi che negano l’esercizio dei diritti umani fondamentali? Penso di no. Per i radicali e per Emma Bonino, Non c'è pace senza Giustizia continua ad essere non solo il nome di un'associazione, ma anche un monito rivolto alle classi dirigenti ed alla comunità internazionale perché tengano costantemente presente che la difesa e la proclamazione dei diritti umani fondamentali sanciti dalle convenzioni passa, inderogabilmente e necessariamente, per la ricerca e la sperimentazione costante di tutti gli strumenti necessari ed utili ad assicurare il concreto ed effettivo esercizio di quei diritti, a qualunque latitudine.

Sono ben note ai radicali le difficoltà poste dalla sfida di tenere viva, e proporre come alternativa concretamente percorribile, la prospettiva sopra evocata, visto e considerato, tra le altre cose, qual è stato l’esito problematico (se non fallimentare) della stagione di iniziative della comunità internazionale a trazione anglo-americana finalizzate all’esportazione del diritto umano alla democrazia - anche e soprattutto attraverso i cosiddetto “regime change” - ed il modo in cui è stata raccontata e conseguentemente archiviata. Aiuta poco però attribuire, come sembra fare Massimo Bordin, le responsabilità di una incapacità/difficolta di riformulare una proposta che in modo realistico dialoghi e riprenda il filo del discorso e della proposta pannelliani di una “organizzazione mondiale della e delle democrazie” alla sola Emma Bonino o peggio ad una scelta – soggettiva? - di voler sbiadire la tradizione politica fino a farla confondere con quella del “primo Gino Strada che passa” occupandosi delle problematiche, anche e soprattutto di diritto, che la presenza di milioni di persone privati dei diritti alle porte dell’Europa pone.

Non far confondere e possibilmente tenere viva la tradizione politica radicale è un’operazione complessa e molto difficile da affrontare per tutti. Le scorciatoie e le semplificazioni servono davvero a poco.