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Ad otto mesi dall’elezione del 45esimo presidente degli Stati Uniti, le divisioni scavate dalla campagna elettorale tardano a cicatrizzarsi. Forse anche per questo è difficile reperire informazioni obiettive e non faziose su ciò che accade. Della recente decisione della Corte Suprema sul famigerato 'Travel Ban', ad esempio, si è parlato poco e male.

Stiamo ai fatti.
Il Governo Trump aveva emanato una “Ordinanza Esecutiva”, in pratica una specie di decreto, che bloccava temporaneamente la concessioni di visti per immigrare negli USA da sei Paesi già individuati come “a rischio terrorismo” ai tempi di Obama (Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen).

Anzi, per la precisione era stata emanata una prima ordinanza alla fine di gennaio, più drastica, che aveva generato il caos in alcuni aeroporti ed era stata subito bloccata, in quanto incostituzionale, da alcuni tribunali; in quel primo caso il Governo Trump aveva preferito fare alcuni passi indietro ed aveva emanato, a marzo, una versione “riveduta e corretta”, meno drastica, del provvedimento. Ma anche questa versione è stata congelata da due tribunali, che l’hanno giudicata comunque incostituzionale.

Il primo tribunale (in Maryland) aveva accolto il ricorso di due uomini che vedevano impedito il ricongiungimento con i loro familiari (rispettivamente la moglie e la suocera). Il secondo (nelle Hawaii) aveva accolto il ricorso dello Stato delle Hawaii, la cui università statale vedeva alcuni studenti impossibilitati ad andare a frequentare le lezioni e a dare gli esami.

Ora la Corte Suprema ha deciso queste cose:
In entrambi i casi i ricorrenti avevano ragione e il Governo Trump aveva torto: il governo non può impedire ricongiungimenti familiari o immigrazione per ragioni (reali e concrete, non ipotetiche) di studio o di lavoro (queste ultime sono le sole a non essere oggetto di nessuno dei casi che hanno generato la decisione della Corte, ma sono molto importanti, ed avevano visto mobilitarsi alcune grandi aziende che lamentavano ingiusti impedimenti ad assumere lavoratori stranieri.

Il blocco totale dell’ordinanza non era però necessario, i tribunali hanno esagerato: bastava ridurne la portata. Basta un suo “congelamento parziale”, insomma.

L’ordinanza può quindi entrare in vigore, ma solo in una forma “riveduta e corretta” dalla Corte, stando alla quale il blocco dei visti si applica esclusivamente a persone che non hanno alcun tipo di collegamento con gli Stati Uniti, perché queste persone non vantano un diritto costituzionale di poter immigrare negli USA e nessuna persona che si trova già negli USA ha un diritto costituzionale a che esse possano arrivare lì.

Il congelamento del provvedimento del Governo Trump rimane quindi per ora sostanzialmente confermato per i casi di persone che possano dimostrare, documenti alla mano, un “autentico e credibile” legame con persone o aziende o istituzioni negli Stati Uniti. Nei confronti delle altre persone, invece, il congelamento è ingiustificato e il provvedimento del Governo entra in vigore.

Due cose vanno evidenziate.
Innanzitutto, la decisione della Corte Suprema è stata emessa formalmente “per curiam”, ossia all’unanimità. Quindi con la condivisione ed il voto a favore dei quattro membri “di sinistra” della Corte e del membro “centrista”. Tuttavia questo è un dato più che altro formale, dovuto al fatto che la decisione è formalmente di revocare la sospensiva dell’Ordinanza del Governo Trump.

Poiché però le motivazioni della decisione contengono una importante modifica dell’ordinanza, tre dei quattro membri conservatori della Corte (ossia Thomas, Alito e quel Gorsuch che Trump ha nominato pochi mesi fa: manca all’appello solo il presidente Roberts, il quale peraltro si è in passato dimostrato il meno conservatore dei quattro) hanno formulato una opinione dissenziente con la quale si sono espressi a favore di una revoca “senza se e senza ma” della sospensiva dell’ordinanza del Governo, invece di quella “creativa” approvata dalla Corte che ha ridimensionato la portata del “Travel Ban”.

La motivazione da loro addotta è principalmente che la decisione adottata dalla Corte genererà una marea ingestibile di contenziosi, perché molti aspiranti immigranti sosterranno di avere i requisiti per ottenere il visto, e su questo si finirà spesso in tribunale.

Inoltre, va considerato che la decisione di lunedì è provvisoria: la Corte ha rinviato ad ottobre ogni decisione riguardante l’avvenuta violazione o meno del divieto costituzionale di discriminazione su base religiosa e dei limiti costituzionalmente sanciti del potere normativo presidenziale. Per contro, il blocco dei visti disposto da Trump è temporaneo: dura 90 giorni, ufficialmente il tempo che il Governo si era preso per poter rivedere “a bocce ferme” le procedure di concessione dei visti. La Corte lunedì ha avuto cura di precisare che i fatidici 90 giorni cominciano a decorrere da oggi, 29 giugno. Quando ad ottobre riprenderà in mano la questione, si troverà probabilmente alle prese con una “cessata materia del contendere”, che renderà superflue ulteriori statuizioni.

Ora, se ci chiediamo se in tutto ciò “Trump ha vinto o perso” forse ci stiamo facendo la domanda sbagliata. Potrebbe essere più utile chiederci se il sistema costituzionale statunitense, sottoposto ad una sorta di “stress test” stia reggendo bene. A me per ora pare di sì.