Rodota

Rodotà fa parte della generazione dei grandi vecchi della sinistra italiana che, senza appartenere in modo organico alla cultura e al partito comunista, ne accompagnarono, in modo ora critico, ora gregario, un’evoluzione tardiva e in larghissima misura incompiuta e dopo la svolta della Bolognina si opposero alla 'normalizzazione' della sinistra post-comunista, continuando a sognare un altro mondo e un’altra politica e a disegnarne i contorni immaginari con sempre più sofisticata raffinatezza intellettuale e alienazione politica.

La resistenza alla cosiddetta “socialdemocratizzazione” dell’ex PCI non venne infatti dalla vecchia guardia che era stata stalinista e “sovietista”, ma era stata educata al culto del realismo politico. Venne piuttosto dai compagni di strada che, senza avere condiviso la gestione e le responsabilità del partito, erano rimasti ancorati al mito della “diversità antropologica” di cui il PCI berlingueriano si era proclamato custode e che il partito post-comunista avrebbe dovuto rinnovare nella Seconda Repubblica, contrassegnata dal dominio e dalla scandalo del potere berlusconiano.

A differenza di molti indipendenti di sinistra intra- ed extraparlamentare Rodotà aveva un profilo di maggiore autonomia e originalità culturale, di impronta marcatamente libertaria. Era stato garantista quando a sinistra non era comodo esserlo e, fedele a un ideale di laicità intransigente, ha sempre coltivato e diffuso l’idea della centralità dei diritti civili dentro un mondo di “compagni” che fino agli anni ‘70 e ‘80 continuavano a ravvisarne con sospetto soprattutto i caratteri sovrastrutturali e borghesi.

Le stesse caratteristiche della persona - la disponibilità, la cortesia, la generosità, l’educazione - hanno aiutato a costruire un personaggio molto amato e rispettato, che però sarebbe eccessivo qualificare come “irregolare”. È stato, al contrario, un pezzo importante e integrato della classe dirigente politico-intellettuale della sinistra italiana. La sua voce poteva apparire a sinistra ora troppo idealistica, ora troppo disallineata, ma mai scandalosa e bestemmiatrice come ad esempio quella di Sciascia, che nella stagione dell’unità nazionale scelse - lui che con il PCI era stato eletto al Comune di Palermo - di candidarsi coi radicali, proprio mentre l’allora radicale Rodotà sceglieva di candidarsi con il PCI.

Proprio la parte finale del suo impegno pubblico ha confermato che Rodotà è appartenuto fino alla fine a una generazione più sensibile alle nostalgie rivoluzionarie che al faticoso mestiere del governo di sinistra in un mondo che ha svoltato il secolo breve, seppellito, con quello comunista, anche l’ideale socialdemocratico per l’irreversibile crisi fiscale dello Stato sociale novecentesco e che costringe a declinare gli ideali di uguaglianza e solidarietà in un modo nuovo e non riconciliabile con nessuna “memoria delle origini”.

Quando in nome della centralità del Parlamento e della difesa della Costituzione si prestò a diventare il fantoccio quirinalizio di un guru fascio-qualunquista, che predica l’imposizione del vincolo di mandato e il superamento della democrazia rappresentativa, fu chiaro che più che a una contraddizione personale si stava assistendo a una sorta di cortocircuito storico di un mondo di sinistra (quello dei Settis, degli Zagrebelsky, dei Bodei…) che alla perenne ricerca di una nuova Terra Promessa aveva finito, senza neppure accorgersene, per accamparsi in quella del nemico.