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Nel 2013, quando i 5 Stelle uscirono dal voto per la Camera come la forza politica con più suffragi in Italia (il Pd recuperò solo con i residenti all'estero), alle comunali romane il candidato sindaco grillino, Marcello De Vito, ottenne meno di 150mila voti (il 12,43% del totale), mentre per Montecitorio la lista di Grillo aveva ottenuto tre mesi prima 436mila voti, il 27,27% del totale. Di quanti nella Capitale votarono il M5s per la Camera, due su tre (al netto di altri flussi in entrata e in uscita) non votarono il M5S per il Comune di Roma.

Dalla sera di domenica si sta discutendo molto sul flop dei 5 Stelle in questo turno amministrativo, che li ha visti accedere al ballottaggio in soli 8 comuni su 140. Però la debolezza dei 5 Stelle nel voto amministrativo è una costante storica che anche le comunali dello scorso anno confermarono (con l'accesso a soli 20 ballottaggi su un totale di 126), ma che il trionfo previsto a Roma e imprevisto a Torino occultò, facendo pensare che proprio dai comuni sarebbe partita la conquista grillina dell'Italia.

Invece negli ultimi anni, anche al di là della qualità mediocre o pessima dell'azione di governo dei sindaci grillini, se c'è una costante che ha accompagnato il voto per il M5S è proprio quella della scarsa presa sul territorio, di un radicamento disomogeneo e debolissimo e di una strutturale sproporzione tra le dimensioni (potenziali) del voto nazionale e di quello locale.

Questo dipende dalla diverse caratteristiche delle elezioni: tanto quelle amministrative sono virtuosamente o viziosamente legate a circostanze specifiche e territoriali e a fenomeni di contiguità e di legame più direttamente personale e interessato tra amministratori e amministrati, tanto le elezioni politiche sono ormai diventate, non solo per gli elettori grillini, il voto "liberato" da vincoli di coerenza e di responsabilità.

Paradossalmente il voto più decisivo e pesante è quello che gli elettori interpretano in modo più estemporaneo e "leggero", dando espressione a frustrazioni, idiosincrasie e desideri che rappresentano il vero fondo oscuro del loro rapporto con la politica. Il "voto-contro" grillino rimane quello più adeguato a interpretare questo modo di vivere il momento elettorale nazionale come un'ordalia contro il potere e come un risarcimento della sofferenza, della paura e dell'incertezza che abita il subconscio di milioni di italiani. Grillo sarà pure il grande sconfitto del voto di domenica, ma rimane il Mahatma della politica italiana.

Finché non sarà prosciugato questo brodo di cultura antipolitico, cui la retorica della Casta - che non è un’invenzione del popolo, bensì delle élite - continua a fornire buone ragioni e una riconosciuta rispettabilità sociale, il voto grillino continuerà ad incombere come una spada di Damocle sui destini della democrazia italiana e a esercitare una vera e propria egemonia culturale sui partiti tradizionali che, per fermare i grillini, si sono tutti persuasi di dovere un po' assomigliargli, e fare loro il verso per contendere il favore dell'elettorato "incazzato".

Se anche, come mi pare improbabile, nell'estrema volatilità del voto e nella abnorme evanescenza dei fenomeni politici che caratterizza il nostro Paese, la bolla grillina si sgonfiasse nel giro di pochi mesi, minata dalle faide interne nella caserma casaleggiana, rimarrebbe comunque piantata nel campo della democrazia italiana quella radice da cui il grillismo ha preso origine e che tornerà a fruttificare, in altre forme inaspettate, magari in quella destra "cattiva" forza-fascio-leghista che pare la vera vincitrice di questo primo turno amministrativo.

Ma togliamoci dalla testa che il voto di domenica segni il ritorno a un qualche tipo di "normalità bipolare".

@carmelopalma