Aula Senato

Dunque, parrebbe fatta per una legge elettorale che può dar luogo a tre soli esiti: un governo PD-FI, un governo M5S-Lega (e eventualmente FdI), o nessun governo, nel caso in cui il superamento dello sbarramento da parte della galassia alla sinistra del PD e/o di una coalizione centrista rimescolasse le carte del quadripartito oggi sicuro di superare il 5% e rendesse aritmeticamente impossibile qualunque maggioranza parlamentare.

Di fatto la legge che si annuncia - poi ne leggeremo il testo, quando ci sarà - non è troppo diversa dai due Consultelli licenziati dalla Corte Costituzionale per Camera e Senato, se non per la misura dello sbarramento, e ne condivide limiti e rischi, il principale dei quali è di postulare, come soluzione di ultima istanza, una Grande Coalizione che in Italia è una formula di fatto impossibile, rebus sic stantibus, se non come grande coalizione antipolitica e antieuropea, in forma soft (PD+FI) o hard (M5S-Lega). Una grande coalizione, insomma, che sarebbe il contrario di quelle che oggi in Francia e da anni in Germania tengono a bada i demoni del populismo.

Con la riproposizione del Mattarellum e la presentazione del cosiddetto Rosatellum il PD dava l'idea di aver compreso che oggi, nel tripolarismo italiano, ha più senso rischiare di perdere (o di far vincere Grillo) che rischiare di non far vincere nessuno, e che una forza o una compagine di governo non si può fare semplicemente sommando, dopo il voto, i seggi di forze politiche che si sono sanguinosamente delegittimate fino al giorno del voto.

La ragione per cui né il Mattarellum né il Rosatellum hanno trovato un riscontro maggioritario è che molto semplicemente il PD ha pensato di proporli non alla, ma contro l'attuale maggioranza, escludendo esplicitamente alleanze pre-elettorali (anche con partiti con cui governa da quasi 5 anni). Se la proposta del Rosatellum fosse stata accompagnata da un impegno politico alla costruzione di una coalizione "modello Sala", sarebbe tranquillamente passata coi voti di tutta la maggioranza, oltre che della Lega e di quel pezzo di sinistra che si è staccata dal PD, ma in queste ore è alleata con il PD in moltissime città che giungeranno al voto per l'elezione di sindaci e consigli comunali (e con il PD continua a governare in tutta Italia centinaia e centinaia di comuni e regioni).

Con questo nuovo "tedesco" (vedremo quanto riadattato), il PD sembra scegliere una linea radicalmente diversa. Compiace il desiderio del M5S di vincere le elezioni, senza essere costretto a governare, e scommette tutto sui numeri possibili di una maggioranza con il partito berlusconiano. Non penso che ci sia nessuno al Nazareno a ritenere che con questa legge elettorale (proporzionale puro con sbarramento al 5%), il Pd possa prendere la maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato.

Quindi tutti quelli che approveranno la svolta proporzionalista pensano che sia possibile governare con Berlusconi e impacchettano una legge elettorale che comporta, come dicevamo, le stesse conseguenze dei due Consultelli, come viatico e pegno di un accordo di governo. Con l'ulteriore vantaggio - che è un vantaggio per modo di dire - di anticipare il voto e posticipare il redde rationem di una legge di stabilità che la riconferma della Merkel renderebbe complicato per Padoan e Gentiloni trattare lassisticamente, a Roma come a Bruxelles.

In questa nuova strategia del PD a lasciare interdetti (e perfino sgomenti) è il suo presupposto politico: la persuasione che Berlusconi possa essere per Renzi ciò che Philippe è stato per Macron, un varco aperto nel campo moderato o un canale di comunicazione con un pezzo di società che, pur appartenendo alla destra "tradizionale", condivide una scommessa di rinnovamento e rimescolamento europeista del voto nazionale, e di riarticolazione di un'offerta politica che scavalcando i confini delle ideologie novecentesche sia in grado di governare il "nuovo" con più consapevolezza del "nuovo". Ma non c'è nulla e soprattutto non c'è nessuno nel partito berlusconiano che lo faccia anche solo lontanamente somigliare all'immagine di una destra affrancata dai canoni del vittimismo nazionalista.

Il partito berlusconiano è un clone del partito di Salvini. Culturalmente, non ha niente di diverso, di alternativo, di "disallineato". È un partito in cui il più moderato di tutti, il capogruppo al Senato Romani, poche settimane fa ripeteva che la Merkel è più pericolosa della Le Pen. È un partito la cui piattaforma ideale e la cui cifra psicologica è nelle prime pagine del Giornale, di Libero e della Verità e nel "gentismo" antipolitico, xenofobo e demagogico dei talk Mediaset. È un partito in cui l'unico che ha provato a giocare alla destra normale, Stefano Parisi, a cui tutti si erano votati per conquistare Milano, zavorrandolo però con la retorica "ruspista" di Salvini, è stato buttato fuori a calci dall'inner circle berlusconiano perché incompatibile con il cattivismo antitedesco e antieuropeo. È un partito che delira di "doppia circolazione monetaria" e che continua a descrivere l'emergenza spread 2011 come un complotto contro l'Italia. Quale contributo riformista e europeista potrebbe dare un partito così?

Ora si può anche sostenere che, fatti tutti i conti, un governo Nannicini-Gasparri o Boschi-Santanchè sarebbe meno peggio di un governo organicamente fascio-grillo-leghista, ma l'impressione è che, con tutta la buona volontà che ci potranno mettere al Nazareno, sarebbe un meno peggio molto sotto la soglia della necessità e dell'accettabilità, per un Paese che sui mercati internazionali ogni giorno si gioca la pelle.

@carmelopalma