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Le primarie aperte sono una formula democratica certamente più seria e moderna degli algoritmi della piattaforma Rousseau per selezionare leadership e proposte di governo rappresentative degli orientamenti di una comunità politica. Ma non sono taumaturgiche e non testimoniano di un contatto “vitale” con le tendenze e gli umori di fondo della comunità nazionale. 

L’esperienza (italiana, ma non solo) dimostra che le primarie funzionano nelle fasi fondative o di rottura – quanto annunciano o anticipano cambi di paradigma ancora latenti – ma non altrettanto quando sono chiamate a legittimare la continuità o il ripiegamento di una classe dirigente o di una linea politica. In questi casi, al contrario, a uscire vincente è quasi sempre il candidato o la politica perdente e l’esito delle primarie fotografa del partito più gli equilibri di potere interni che la sua forza di proiezione esterna, più la sua autoreferenzialità che la sua “apertura al mondo”.

Alle primarie che scelsero Benoît Hamon contro Manuel Valls candidato del Partito socialista francese all’Eliseo parteciparono più di due milioni di elettori. Più o meno gli stessi che hanno votato alle primarie di ieri, plebiscitando nuovamente Renzi alla segreteria del PD. Col che, ovviamente, non si vuol dire che per questa coincidenza Hamon e Renzi siano uguali e uguale debba essere il loro destino, ma che una significativa partecipazione popolare a una consultazione interna a un partito non è un indice della rappresentatività “generale” della proposta politica che abbia raccolto la maggioranza dei suffragi.

È altrettanto evidente che se Hamon proponeva un ritorno orgoglioso ai cliché “vetero-sinistristi” (in questo incentivando il deflusso del voto verso Macron), la proposta di Renzi è per certi versi opposta e ampiamente de-ideologizzata e oscilla tra un riformismo eclettico e un demo-populismo demagogico, con un’attenzione costante e dichiarata agli interessi dell’elettorato cosiddetto moderato. Però l’esempio di Hamon e delle primarie del PSF deve essere di monito per chi troppo superficialmente vorrebbe derivare dalla nuova legittimazione di Renzi un giudizio sulla ritrovata forza propulsiva della sua leadership.

Il voto di ieri fa definitivamente giustizia dell’accusa a Renzi di essere un intruso o un usurpatore della storia della sinistra italiana. Nel partito e tra gli elettori democratici non c’è dubbio che oggi Renzi non ha concorrenti, né alternative. Il super-correntone renziano è composito, ma al di là dei numeri dell’Assemblea Nazionale e del peso dei renziani di più stretta osservanza negli organismi dirigenti, la sua leadership personale nel PD esce dalle primarie senza intralci e neppure contrappesi. Ciò premesso, il risultato di ieri – che pure il neo-segretario del PD ha presentato come una pagina nuova e tutta da scrivere nella storia del PD e del Paese – ha premiato il “solito” Renzi, con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua attitudine alle corse in solitaria e all’azzardo politico, la sua sindrome dell’autosufficienza e il suo “populismo democratico”.

La prima cosa che ha detto dopo il trionfo è che non farà alleanze con nessuno, presentando di fatto il Partito Democratico come unica possibile alleanza patriottica. Anche sulla legge elettorale il PD salvaguarderà comunque questo schema, che non prevede fuori dal PD alleati, ma solo avversari. Renzi contro tutti, insomma. Lo stesso schema che al referendum portò al risultato che sappiamo e che alle elezioni politiche difficilmente persuaderebbe al voto del PD una parte di quegli elettori che portarono il sì al 40%, ora obiettivo (o miraggio) della nuova scommessa maggioritaria del neo-segretario del PD.

Insomma, Renzi come prevedibile ha vinto le primarie. Ma questo voto cambia ben poco sia dentro il PD sia nella politica italiana. Tutti i dilemmi e tutti i rischi di ieri sono gli stessi di oggi e di domani.

@carmelopalma