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(Public Policy - stradeonline.it) Da qualche settimana è tornata di moda la discussione sui vitalizi dei parlamentari. È bastato un sms dell’ex Presidente del Consiglio a Giovanni Floris durante la sua trasmissione per accendere le polemiche su un istituto che fino al 2012, malgrado le critiche sempre più forti, era rimasto in vigore, fino a rappresentare il simbolo del malcostume parassitario della politica.

Capita fin troppo spesso però che dietro a ogni polemica si nascondano inesattezze e falsi miti. In questa piccola guida spieghiamo come evitare di cadere nella trappola - predisposta a volte, attraverso omissioni - anche dagli stessi siti istituzionali di Camera e Senato.

“Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso - scriveva Renzi a Floris - l’unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini”. Falso, non scatterebbe alcun vitalizio. Il vitalizio in senso stretto è già stato abolito nel 2012, quando con la riforma del Regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati (ah, l’autodichia!) è stato sostituito da una pensione calcolata con il metodo contributivo.

Per vitalizio, in termini pratici, intendiamo anche nel linguaggio comune una forma di rendita percepita per tutta la vita da un’età molto precedente a quella pensionabile e, quanto agli importi, determinata in modo indipendente dalla quantità di contributi versati.

Un nuovo sistema di calcolo si applica integralmente ai deputati eletti dopo il 1° gennaio 2012, mentre per i deputati all’epoca in carica - e per i parlamentari già cessati dal mandato e successivamente rieletti - ha trovato applicazione un sistema pro rata, cioè la somma della quota di assegno vitalizio definitivamente maturato alla data del 31 dicembre 2011, e di una quota corrispondente all'incremento contributivo riferito agli ulteriori anni di mandato parlamentare esercitato.

Insomma, i deputati non incassano certo un win for life, né lo incassano dal giorno successivo alla fine della legislatura.


Pensione, quando?

I deputati cessati dal mandato, con la disciplina oggi in vigore, conseguono il diritto alla pensione al compimento dei 65 anni e dopo aver esercitato il mandato per almeno 5 anni effettivi. Ma la frazione di anno si computa come anno intero se corrisponde ad almeno 6 mesi e un giorno. Ecco perché agli onorevoli bastano 4 anni, 6 mesi e un giorno per andare in pensione, vale a dire settembre 2017, ed ecco perché le polemiche odierne sul proseguimento della legislatura, dal momento che l’alto tasso dei deputati alla prima legislatura fa sì che almeno 400 deputati non abbiano maturato ancora il diritto alla pensione.

Per ogni anno di mandato ulteriore, l'età richiesta per il conseguimento del diritto cala di un anno, ma non scende al di sotto dei 60 anni. Questa riduzione dell’età pensionabile è in teoria coerente con il meccanismo contributivo, che “prezza” il costo dell’anticipo con una riduzione della remunerazione del montante contributivo in base alla residua speranza di vita. La possibilità dell’anticipo all’età di 60 anni senza penalizzazioni è una facoltà riservata oggi ai soli parlamentari e dunque si può considerare un privilegio, ma è tale soprattutto per quanti percepiranno il vecchio vitalizio non calcolato secondo meccanismi contributivi. Non riguarda insomma i deputati e senatori che oggi, in caso di scioglimento anticipato delle camere, non avranno ancora concluso la propria prima legislatura e vengono invece descritti come “a rischio” di perdere il vitalizio.

 

Pensione, quanto?

Qui permetteteci qualche tecnicismo doveroso e seguiteci nei calcoli. Premettiamo che i contributi vengono trattenuti d’ufficio sull’indennità parlamentare. La pensione viene determinata moltiplicando il montante individuale dei contributi per il coefficiente di trasformazione. Il coefficiente varia a seconda dell’età del deputato al momento del conseguimento del diritto alla pensione.

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Tali coefficienti (in vigore dal 2013) se non verranno aggiornati nel tempo, come avviene nel caso dei lavoratori “normali”, potranno divenire più vantaggiosi di quelli che regolano le pensioni tradizionali e perciò vengono messi nel mirino da alcune proposte di legge in esame presso la Ia Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio.

Inoltre, il montante viene determinato applicando alla base imponibile contributiva (sulla base della sola indennità parlamentare, senza indennità di funzione o accessoria) l’aliquota dell’8,8% a carico del deputato e quella del 24,2% a carico della Camera (2,75 volte quella a carico del deputato). Si tratta delle stesse aliquote contributive applicate ai dipendenti pubblici.

Dal 1 gennaio 2012 l’indennità parlamentare lorda mensile è pari a 10.435 euro se il deputato non percepisce redditi da attività lavorativa superiori a 21.066, 55 euro (altrimenti è pari a 9975 euro). L’8,8% dell’indennità è dunque pari a circa 920 euro (a carico del deputato), il 24,2% è a carico della Camera (2530 euro). Il montante va poi rivalutato annualmente al tasso annuo di capitalizzazione.

Strade ha potuto vedere alcune elaborazioni fatte dalla stessa Camera dei Deputati. Si prospettano tre ipotesi:

Un deputato eletto nel 2013 a 27 anni, che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere rieletto, percepirà a 65 anni (nel 2051) una pensione di circa 970 euro netti al mese.

Se, invece, l’onorevole eletto nel 2013 a 39 anni viene riconfermato fino al 2023, potrà andare in pensione a 60 anni (2034) per una cifra di circa 1.500 euro al mese.

Infine, se un 32enne neoeletto nel 2013 viene rieletto per due legislature fino al 2028, potrà andare in pensione a 60 anni con in tasca circa 2100 euro al mese.

Nel complesso, le nuove pensioni non hanno nulla più a che vedere con i vitalizi di “vecchio regime” in virtù delle quali - ad esempio - un parlamentare in carica dal 2001 al 2006, eletto a 40 anni, percepirà a 60 anni (nel 2021) circa 2400 euro al mese.

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