Attentato Berlino

In molti si chiedono, in queste ore, se il destino dell'Europa non sia quello di doversi attrezzare a essere una grande Israele, quotidianamente sotto la minaccia del terrorista dovunque possibile, della fatalità sempre dietro l'angolo, della vita col fiato sospeso.

Non abbiamo la coesione sociale, la forza morale e la preparazione di un popolo piccolo ma abituato all'assedio, in cui ognuno è soldato e difensore del prossimo. Ma dovremo forse abituarci all'idea che la nostra libertà e il nostro modus vivendi sono beni da tutelare con sempre maggiore attenzione, accettando un grado maggiore di controllo e sicurezza militare dei nostri spazi comuni e probabilmente anche una certa compressione della sfera di riservatezza individuale.

Quanto c'è di banale nichilismo nelle azioni suicide dei terroristi e quanto c'è di un disegno geopolitico più ampio? Il terrorismo fai da te, con il diploma di jihadista conseguibile direttamente online, è la più insidiosa delle minacce, perché non c'è bisogno di nessuna organizzazione, nessuna diffusione top-down o investimento economico particolare. È il terrorismo social: azioni che producono decine di morti e milioni di condivisioni Facebook e Twitter. Non ne usciremo facilmente, non esistono soluzioni chiavi-in-mano. L'illusione facile da vendere a una opinione pubblica scossa e in cerca di risposte è l'equazione "profughi uguale terroristi", per qualcuno valida anche nella forma estesa "immigrati uguale terroristi". Non è la soluzione ai nostri problemi, è anzi benzina sul fuoco.

Non c'è però dubbio che la gestione di flussi inediti di profughi, ma soprattutto di migranti economici, stia esasperando la società europea. La percezione della "invasione" e dell'insicurezza non è corroborata dai fatti e dai numeri, ma in politica non si possono ignorare le percezioni diffuse. Tanto più che, se verrà dimostrato che l'attentatore è un 23enne pakistano giunto in Germania come richiedente asilo, si avrà un caso eclatante di un vero e proprio "infiltrato".

Se le democrazie liberali non vogliono essere travolte da un consenso crescente per nuovi fascismi xenofobi e complottisti, hanno il dovere di reagire con forza e determinazione nelle realtà destabilizzate del Medio Oriente e dell'Africa. Non si estirperebbe la malapianta del nichilismo radicalizzato (che purtroppo si diffonde e prospera soprattutto tra le seconde e terze generazioni di immigrati di cultura musulmana), ma si lavorerebbe in modo più compiuto per soluzioni di medio-lungo periodo.

Finché una realtà come la Libia sarà terra di nessuno, prospereranno i traffici di persone e di armi. E di Stati "falliti" ormai è sempre più pieno lo scacchiere internazionale. Finita l'illusione del peacekeeping e della democrazia esportata, resta una sola concreta possibilità: che i paesi più avanzati "adottino" Stati o regioni e se ne occupino direttamente, formando una classe dirigente, irrobustendo le istituzioni, permettendo la nascita e lo sviluppo di un'economia e occupandosi della sicurezza.

Qualcuno taccerebbe questa proposta per neo-colonialismo, ma la differenza sarebbe sostanziale: decenni dopo i disastri del colonialismo (e della decolonizzazione, peraltro), abbiamo una piena consapevolezza della pari dignità di ogni essere umano; abbiamo abbandonato il paradigma estrattivo (le economie coloniali basate sulle materie prime o peggio sulla schiavitù) e conosciamo le virtù di uno schema inclusivo di mutuo interesse; siamo società vecchie interessate a valorizzare la ricchezza demografica altrui, non ad accaparrarci terra per i nostri contadini in eccesso.

È una suggestione la mia, ma in tempi esasperati non bisogna avere il timore di osare idee.