Merkel dito

La scelta di Angela Merkel di correre per un quarto mandato è carica di rischi e in larga misura estranea all’immagine che i nemici della cancelliera tedesca proiettano sull’ex ragazza dell’est arrivata ai vertici della Germania riunificata.

In primo luogo, si tratta di una scelta rischiosa, di un azzardo lontano dallo stile di una leader accusata di essere freddamente calcolatrice, cinicamente attenta ai rapporti di forza e per questo capace, senza inutili esibizioni di muscoli, di padroneggiarli a proprio vantaggio. La sua ricandidatura non aggiunge nulla e rischia di togliere moltissimo a una carriera straordinaria e di macchiare con una sconfitta – o una pesante battuta d’arresto – il profilo di una donna straordinariamente vincente e ancora in grado, in teoria, di ritirarsi da “vincitrice”.

In secondo luogo, si tratta di una scelta chiaramente europeista, compiuta da una leader accusata di avere piegato la politica europea agli interessi tedeschi e invece evidentemente persuasa del legame storicamente indissolubile e “costituzionalmente” necessario tra unità tedesca e unità europea.

La sua resistenza a concedere spazio politico alle posizioni ideologicamente “marco-centriche” o nazionaliste non dipende da un idealismo astrattamente federalista, ma dalla convinzione che la potenza tecnologica e economica della Germania abbia più possibilità e titolo di dispiegarsi in un continente politicamente unito e economicamente integrato, che non abbia ragioni per temere la “supremazia tedesca”. Merkel sa che la lezione della Guerra e del Muro deve rimanere parte della storia e della identità tedesca e non può essere rimossa, senza rischi potenzialmente incalcolabili.

In terzo luogo, la scelta della Merkel è una chiara affermazione di leadership da parte di un personaggio e di un Paese che, per le ragioni appena citate, hanno sempre avuto una comprensibile riluttanza a rivendicare un ruolo di “guida”, preferendo ritagliarsi quello di guardiani delle regole europee e di censori della loro violazione. Oggi Merkel ha chiaro che la sfida populista non è una sfida al suo governo o alla “sua” Germania, ma è una sfida esistenziale per le stesse istituzioni europee.

Il successo del piano della Merkel non dipende solo dall’esito delle prossime elezioni legislative e dalla possibilità di arginare l’infezione populista e nazionalista nell’elettorato cristiano democratico e di cementare una coalizione europeista abbastanza larga e coesa. Dipende, in buona misura, proprio da quanto succederà in Francia e in Italia, e dal rischio del radicale ribaltamento dell’ordine politico europeo post Guerra Fredda negli altri due grandi Paesi dell’Eurozona, la Francia e l’Italia. L’unità europea la Germania e la Merkel non possono né farsela, né difendersela da sole. Solo la Merkel può salvare l’Europa, ma sono i francesi e gli italiani, assai più dei tedeschi, a potere condannare il suo tentativo al fallimento.

Se la scelta di correre per un quarto mandato segna, come dicevamo, più di una rottura rispetto al suo passato, la sua piattaforma difficilmente sarà diversa e lontana da quella puntigliosamente “rigorista”, che le ha guadagnato così tante contumelie dai bestemmiatori dell’austerità. E tutto questo non è un male, ma un bene. Un’intransigenza benedetta.

La deriva sovranista dei paesi più forsennatamente eurofobici (e l’Italia non sta purtroppo in basso in questa graduatoria) è un delirio ideologico di autosufficienza in una condizione di palese eteronomia demografica, strategica ed economica. La società aperta e la disciplina finanziaria, i principi della solidarietà economica e della coesione civile tra i paesi membri, sono le forme di una sovranità condivisa, non conculcata. Sono, a ben guardare, la sola forma possibile dell’unità e della libertà europea.

L’Europa è “matrigna” – o, come recita la paranoia euro-fobica, il Quarto Reich e la nuova Urss – solo nella retorica di chi vuole abbatterla, non di chi vuole riformarla. Le regole del mercato comune, del patto di stabilità fiscale, e del bilancio dell’Unione possono essere adattate alle sfide dei tempi, non possono essere divelte senza fare del vecchio continente un esplosivo quadrante del Risiko nazionalista, dove tra l'ambizione della grandeur e la frustrazione del fallimento (e la conseguente ricerca del capro espiatorio) l’Europa dei morti rischia di riacciuffare e riportare all’inferno l’Europa dei vivi.

Renzi e il PD, comunque vada il referendum, e il nuovo presidente francese, se non sarà Marine le Pen, o si mettono in scia della cancelliera tedesca in questo eroico tentativo di salvare il salvabile o metteranno anch’essi la propria firma sull’atto di morte dell’Unione (e ovviamente del mercato comune, che non è destinato a durare un secondo il più della costruzione politica che ne giustifica le regole e l’esistenza).

@carmelopalma