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Sono trascorsi quattro anni da quel whatever it takes! che, secondo consenso unanime, nel 2012 salvò i debiti pubblici dei PIIGS dal default e l’euro-zona dalla probabile disintegrazione.

Il presidente della BCE apriva così ufficialmente, anche nel vecchio continente, una stagione decisamente sui generis per la politica monetaria. Quella delle “misure non convenzionali”, identificate con terminologie evocative come Long Term Refinancing Operations, Targeted Long Term Refinancing Operations, Zero Interest Rate Policy, Quantitative Easing (per gli amici semplicemente LTRO, TLTRO, ZIRP e QE). Misure che avrebbero dovuto finalmente ridare fiato all’economia reale e scongiurare il rischio di farla precipitare nella deflazione. Ma che, alla prova dei fatti, su questo fronte hanno prodotto poco e niente.

L’ultima relazione di bankitalia parla di un impatto positivo pari a circa 0,3 punti percentuali in più di crescita, 0,3 punti in più di inflazione e 0,1 punti in più di occupazione nel 2015. Non è granché, considerata la fanfara con cui è stata inaugurata la “stagione del bazooka”. L'impatto sulla crescita nel 2016 dovrebbe arrivare allo 0,6 per cento. Che non è proprio male. Ma rimaniamo nel campo degli esercizi econometrici: nella realtà un banale peggioramento dello scenario internazionale potrebbe avere effetti più incisivi, tali da annullare l'impatto delle misure straordinarie della BCE.

Sta di fatto che la ripresa rimane debole in tutta l’area euro e in Italia è più anemica che altrove. Da noi l’occupazione arranca, e quel poco che si è aggiunto negli ultimi due anni è dovuto a sussidi temporanei pagati con i soldi dei contribuenti (vedi lo sgravio contributivo per i nuovi assunti) e ad effetti non voluti di altri provvedimenti, come la riforma pensionistica Fornero, che ha trattenuto sul mercato i lavoratori più anziani, decisamente contro la loro volontà. Anche l’inflazione, dal canto suo, non smette di affacciarsi continuamente in territorio negativo, rendendo lo storico target BCE del 2% ancora lontano.

Personalmente, non ho mai creduto alla retorica dell’abbattimento del costo del denaro che spinge l’economia reale verso la ripresa attraverso i tradizionali “canali di trasmissione”, come li chiamano gli economisti. Né ho mai creduto all'immissione di liquidità che si trasforma magicamente in maggiore credito alle imprese. E' la sopravvivenza della moneta unica l’obiettivo prioritario della BCE, se non proprio il suo obiettivo “politico” esclusivo. Il salvataggio degli Stati super-indebitati - condizione necessaria per la sopravvivenza della moneta unica - richiedeva acquisti di titoli pubblici anche da parte delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, e le banche non avrebbero certamente “dato una mano” gratis. Insomma, la politica monetaria straordinaria è stata messa in piedi a scopi puramente finanziari, a uso e consumo del sistema finanziario.

A conti fatti, il bazooka del presidente Draghi ha tenuto in piedi l'euro facendo guadagnare, nel contempo, parecchi miliardi al sistema bancario e agli operatori finanziari istituzionali. Ma sull'economia reale non ha lasciato grandi segni positivi. 

Le banche hanno usato la liquidità che la BCE ha fornito con gli LTRO e i TLTRO per rimpinzarsi di titoli di stato, acquistandoli a prezzi stracciati nella fase acuta della crisi dei debiti pubblici. Per loro è stato un impiego sicuro fin dall'inizio. L’endorsement di Draghi invitava chiaramente banche e investitori istituzionali a puntare sulla tenuta dei debiti sovrani. Il significato del whatever it takes! è stato proprio questo: “non vendete i titoli pubblici che avete nei portafogli, anzi compratene tranquillamente di più, perché i PIIGS non verranno mai lasciati fallire, e comprateli subito perché così farete un vero affare”.

Come sappiamo, i corsi dei titoli si sarebbero presto rivalutati grazie al crollo dei tassi di interesse, facendo conseguire alle banche cospicui guadagni in conto capitale. E nel frattempo gli istituti di credito avrebbero anche incassato cedole con rendimenti molto al di sopra di quelli progressivamente calanti delle emissioni successive.

Proviamo a fare un calcolo a spanne di questi incassi. Consideriamo prima di tutto che la spesa annua complessiva per interessi del bilancio pubblico italiano, per ciascuno degli anni che vanno dal 2012 al 2015, è stata rispettivamente pari a 84 miliardi, 77 miliardi, 74 miliardi e 68 miliardi di euro. La percentuale di debito pubblico italiano detenuta nei portafogli delle banche italiane è stata, negli stessi anni, rispettivamente del 31%, 32%, 31% e 30%, mediamente oltre quattro punti percentuali in più del 27% circa detenuto nel 2011. Il risultato è circa 12 miliardi di euro. Questi sono gli incassi aggiuntivi di cedole che il sistema bancario italiano dovrebbe essersi assicurato aumentando la propria quota di titoli pubblici negli anni dal 2012 al 2015. E si tratta di incassi, per così dire, puliti, perché realizzati investendo la liquidità praticamente a costo zero fornita dalla BCE. Se, oltre alle banche, includiamo nel computo anche le altre istituzioni finanziarie, la quota di debito pubblico nelle mani degli operatori finanziari, tra il 2012 e il 2015, è cresciuta di circa 10 punti percentuali rispetto al 2011. E le cedole complessivamente incassate salgono a quasi 30 miliardi di euro.

All'economia reale sono andate soltanto le briciole. La mossa di Draghi, a dire il vero, potrebbe aver prodotto l’effetto opposto sull’offerta di credito all’economia reale rispetto a come ci è stata raccontata dalla comunicazione politica. Perché, semmai, ha spinto molti intermediari a sottrarre liquidità dal credito alle imprese per impiegarla in titoli pubblici, vista la maggiore rischiosità degli impieghi produttivi, il peso già eccessivo delle sofferenze e i parametri di solidità richiesti dalla nuova regolamentazione bancaria europea. Avevo segnalato questa ipotesi in un pezzo scritto proprio su Strade circa tre anni fa.

Dopo i tassi zero e negativi, che sono stati appunto la seconda mossa della strategia, adesso siamo all'epilogo. L'ultima mossa è il QE, col quale la banca centrale sta praticamente ricomprando i titoli pubblici dalle banche. Le banche, così, liquidano i capital gain e allo stesso tempo si mettono al riparo da una eventuale modifica delle norme sulla ponderazione per il rischio dei titoli di stato. Norme sulle quali negli ultimi tempi i tedeschi hanno insistito affinché il debito sovrano degli Stati maggiormente indebitati non sia più considerato risk free. Nell'ultimo anno la quota di titoli detenuta dal sistema bancario si sta riducendo a favore di un aumento di quella detenuta dalle banche centrali dell'eurosistema. Questa tendenza probabilmente continuerà anche nei prossimi mesi, rivelando ancora una volta l'obiettivo principale del QE: chiudere una strategia che puntava a salvare la moneta unica e puntellare i conti economici e patrimoniali del sistema bancario. L'economia reale e la ripresa della crescita nei PIIGS c'entrano poco. Non sono più obiettivi prioritari della politica monetaria. Anzi, la politica monetaria è finita.