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La vicenda dei Panama Papers, negli ultimi giorni, ha sollevato il solito polverone moralista sui cosiddetti paradisi fiscali. Ma cosa sono i paradisi fiscali? Sono quei posti dove ricchi e potenti vanno a nascondere il danaro che 'sottraggono' alle autorità fiscali dei propri paesi. Insomma, i covi dei ricchi evasori di tutto il mondo. È questo che generalmente sottintendono i media 'di regime' quando danno certe notizie. Ed è così che risponde la maggior parte delle persone. Si tratta dell'interpretazione prevalente nell'opinione pubblica.

Un numero crescente di persone, però, è sempre meno d'accordo con questa vulgata martellante. Sono sempre di più a prendere coscienza di una prospettiva diversa e a coltivare il punto di vista inconsueto, ma verosimile, che i paradisi fiscali in realtà non esistono. E che esistono, invece, gli inferni fiscali. Inferni dai quali il denaro cerca di scappare come può. Anche il denaro guadagnato dalla gente normale, dai piccoli imprenditori e dai lavoratori vorrebbe scappare dall'inferno. Non solo quello dei furbi, dei ricchi e dei potenti.

Insistere sempre e solo sul concetto di “paradiso fiscale”, in effetti, fa perdere completamente di vista la realtà nella quale siamo immersi. Dove ci siamo gradualmente abituati a sopravvivere, e nella quale rischiamo di perire proprio come la famosa rana bollita. Una realtà che assomiglia sempre più all'antitesi del paradiso fiscale. E che risponde sempre più al concetto di “inferno fiscale”.

L'inferno fiscale è una cosa tutto sommato immediata e naturale da comprendere. Non è complicata come le definizioni di paradiso fiscale, costruite sui parametri degli stati-leviatano e delle loro pratiche vessatorie. Cos'è un inferno fiscale? È quello dove si pagano “troppe tasse”? Naturalmente. Troppe tasse sono la caratteristica essenziale. Basta aggiungere pochi altri elementi e il concetto di inferno fiscale è completo.

Nell'inferno fiscale una quota considerevole del gettito è impiegata in “beni e servizi pubblici” non essenziali, non desiderati né richiesti da buona parte dei cittadini. Nell'inferno fiscale, quindi, i cittadini non sono del tutto liberi. Non sono liberi di acquistare e pagare ciò che vogliono veramente. Sono costretti a pagare quello che viene loro imposto da una entità dotata di coercizione. Solo per fare un esempio, sono costretti a pagare il “canone” per un servizio radiotelevisivo pubblico del quale potrebbero fare tranquillamente a meno, che non hanno mai richiesto e al quale non si abbonerebbero mai sul libero mercato.

Nell'inferno fiscale, sovente, accade che le risorse prelevate ai cittadini normali finiscano in sprechi, oppure trasferite a una ristretta casta di cittadini “più eguali degli altri”, che godono di privilegi in virtù di rendite fiscali o politiche. Quando ci si riferisce all'inferno fiscale non è più nemmeno peccato mutare terminologia e chiamare le cose con il proprio nome. Quindi parlare di “tasse estorte” e non di “tasse pagate” suona più appropriato. Perché l'estremo dello stato-leviatano, che esige le tasse per finanziare gli sprechi e i privilegi di pochi, non è molto dissimile dalla comune organizzazione criminale che esige “pizzo in cambio di protezione”.

È molto facile immaginare che in un posto simile, quando le cose vanno male, perché c'è una crisi economica o una crisi della finanza pubblica, i cittadini normali (cioè i sudditi, a questo punto) sono chiamati a pagare sempre di più per mantenere intatti i privilegi dei “più eguali”. E forse è proprio questa l'immagine più chiara dell'inferno fiscale. Un posto dove i cittadini normali pagano sempre di più per ricevere sempre di meno. Non sono pochi i paesi dove negli ultimi quindici-venti anni i cittadini-contribuenti sono stati chiamati a pagare di più e alla fine hanno ricevuto di meno. Prendiamone uno a caso: l'Italia. E proviamo a osservare l'andamento di un indicatore che misura la percezione dei cittadini su quantità e qualità dei servizi offerti dallo stato. Per esempio il government effectiveness index della Banca mondiale (è lo stesso indicatore che ho usato in un articolo proprio su Strade un paio di anni fa). Ci rendiamo conto di due cose.

Primo. A fronte dell'aumento pressoché continuo della pressione fiscale, quantità e qualità dei beni e servizi pubblici sembra siano scadute parecchio (vedi figura 1). Secondo. Confrontiamo la performance dell'Italia con quella di altri paesi europei (performance intesa come quantità e qualità di beni e servizi offerti in rapporto alla spesa pubblica pro-capite). Ebbene, scopriamo che il nostro paese era ben distante dalla “frontiera dei paesi più efficienti” già nel 2002. E che nel frattempo se ne è allontanato ancora di più (vedi figura 2). In parole povere, nell'arco degli ultimi quindici anni (“almeno” quindici, a voler essere precisi) abbiamo pagato sempre di più per ricevere sempre di meno.

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Grafico2 Panci 611

Dunque, l'Italia forse non è ancora un inferno fiscale, ma si sta muovendo rapidamente in quella direzione. E se le cose stanno così, non ha molto senso arrovellarsi solo su ricchi e potenti che mettono in salvo i propri soldi. Sarebbe più utile smettere di fissare il dito e guardare finalmente la luna. Dedicare almeno un po' di questa indignazione al fatto che il nostro paese sta diventando un inferno fiscale. Al perché lo stiamo permettendo. E domandarsi quanto potrà ancora resistere il cittadino medio, prima di avere pure lui la tentazione di imitare i furbi, ricchi e potenti che lo hanno preceduto, o magari di convincersi che la cosa migliore da fare è “votare coi piedi".