Nuova destra

Il fenomeno che più sconvolge il quadro delle democrazie europee è senza dubbio quello dei populismi, o per meglio dire, della nascita, del consolidamento e in diversi casi del rafforzamento di partiti antisistema, solitamente guidati da leader popolari e, da destra o da sinistra, schierati in aperto conflitto con le classi dirigenti e con i partiti tradizionali - in primis socialisti, conservatori e cristiano-popolari - che dominano da decenni la politica europea.

A quelle classi dirigenti i partiti populisti contrappongono, appunto, un popolo, del quale pretendono di farsi portavoce, che paga i costi della globalizzazione e delle sue conseguenze economiche e sociali. E proprio in nome di questo popolo propongono una rottura con un supposto mainstream liberista, con le regole poste dall’Ue e con le politiche di rigore richieste dall’appartenenza all’Eurozona, mentre, sul versante destro dello spettro politico, promettono la difesa dalle invasioni prodotte dai flussi migratori, nonché dei diritti degli autoctoni, in particolare nel campo della protezione sociale (si pensi al noto slogan del Fronte nazionale: “Prima i francesi”).

Sul piano del funzionamento dei sistemi politici, questa presenza, alla quale corrisponde una sempre più marcata erosione del consenso – ormai pluridecennale – dei partiti sui quali si sono a lungo retti quei sistemi, rende sempre più problematica la formazione dei governi. Si pensi a quanto sta avvenendo in Spagna, dove i populisti di sinistra di Podemos guidati da Pablo Iglesias hanno raccolto alle elezioni del dicembre 2015 un quinto dei consensi e i “populisti di centro” del giovane e brillante Rivera quasi il 14% e dove ad oggi risulta ancora impossibile formare un governo.

Oppure, in altri casi, lo spauracchio populista sottopone i governi, conservatori o socialisti o di coalizione che siano, allo stress di un sovraccarico di domande da parte di un’opinione pubblica timorosa per la propria sicurezza economica e sociale e sempre più sfiduciata dalle istituzioni, politiche e non, e dai partiti. A questo proposito, non bisogna, infatti, dimenticare che questa instabilità si colloca all’interno di una trasformazione nel funzionamento delle democrazie, dove i fenomeni di popolarizzazione, spettacolarizzazione e mediatizzazione della politica e la crisi dei partiti – e delle fratture che ad essi avevano dato origine – lasciano spazio alla crescente personalizzazione dello scontro politico. Tale personalizzazione, se sul lato delle nuove formazioni populiste fornisce un atout per il loro sviluppo, su quello dei partiti di governo produce un sovraccarico, appunto, di responsabilità in capo ai leader, che in condizioni difficili, spesso dopo aver vinto le elezioni con grandi promesse e quindi creando forti aspettative, si trovano a dover rispondere di ogni male e soprattutto da loro si pretendono risposte dagli effetti immediati.

Quest’ultima osservazione ci conduce al problema che si pone di fronte ai leader politici e di governo: come contrastare il fenomeno populista e recuperare consenso presso l’opinione pubblica? Alcuni anni fa, nell’introduzione al suo volume Les droites en Europe (la traduzione italiana è reperibile in «Rivista di Politica» 4/2012) il politologo francese Dominique Reynié si era posto il medesimo interrogativo. Ad esso aveva cercato di rispondere in modo dettagliato, e dalle sue risposte emergeva un approccio realista, che guardasse con attenzione alle classi popolari e alle classi medie – che per la prima volta vedono il loro stile di vita seriamente minacciato, con prospettive di peggioramento, più che di avanzamento sociale ed economico, come era stato in passato – ai loro timori e alle loro insicurezze, anche percepite, cercando di intervenire con efficacia sui problemi, con idee nuove e con coraggio; il coraggio, per esempio, di ammettere l’insostenibilità del sistema di welfare così come si è sviluppato fino ad oggi, di incidere su una spesa pubblica fuori controllo e gravante sulle spalle di cittadini oppressi da un esorbitante peso fiscale, o di riconoscere il problema dell’immigrazione e della convivenza con i nuovi arrivati come un problema reale e non “creato” semplicemente da idiosincrasie o razzismi.

Sappiamo, anche alla luce di quanto detto sopra, che governare con realismo, buon senso, concretezza e lungimiranza non è facile nell’era della “politica spettacolo” e sappiamo che le élites tradizionali sono in grave ritardo, avendo fatto sedimentare i problemi e le loro conseguenze negative. Tuttavia, se negare la gravità dei problemi è fallimentare perché la realtà presenta sempre il conto, altrettanto fallimentare è inseguire gli umori popolari, fornendo loro facili e illusorie soddisfazioni e adottando provvedimenti che, nel migliore dei casi, hanno nulla più che una forza simbolica, mentre, nel peggiore, producono effetti inintenzionali che aggravano la situazione. Tra l’altro, inseguire i populisti sul loro stesso terreno, magari con una retorica più politicamente corretta, difficilmente produce duraturi effetti politici e di consenso: è banale dirlo, ma di solito si sceglie l’originale, e se si tratta di appoggiare chi propugna tesi populiste, allora è probabile che si scelga chi lo fa con più efficacia, radicalità e credibilità.

Purtroppo, però, pare che nella gran parte dei paesi europei la tentazione dei partiti mainstream sia di seguire la strada sbagliata, quella di una convergenza politica verso le estreme della protesta populista e non verso il centro della responsabilità di governo, sia pure in forme nuove e politicamente più persuasive. Lo vediamo ad esempio in Italia, dove gli estremismi del Movimento 5 Stelle e della Lega sono contrastati dal governo e dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi con atteggiamenti ambigui, dove ad un europeismo retorico si accompagnano continue recriminazioni contro l’Europa dei burocrati e dei tecnici, contro l’austerità (che non si capisce mai se sia “cattiva” o “non basti”), in nome di una fantomatica flessibilità (che non si capisce parimenti quanto e in che senso debba essere “flessibile”) che dovrebbe servire a politiche dai contorni e dagli obiettivi poco chiari, ma soprattutto a permettere all’esecutivo di continuare a campare senza intervenire in modo significativo su alcuni nodi strutturali del cattivo funzionamento del nostro sistema: debito, spesa, fisco. Cioè, in sintesi, assistiamo da un lato all’uso del capro espiatorio, strategia tipica del populismo, e dall’altro alla rinuncia a interventi in profondità (accompagnata da interventi di superficie facilmente “vendibili”), che nel breve periodo potrebbero minare il consenso. Cosa che nelle democrazie odierne – delle campagne permanenti, dove i sondaggi misurano ogni sospiro dell’opinione pubblica – pare non sia più tollerata.

Questa tendenza però è evidente anche altrove, in democrazie ben più solide e di antica tradizione della nostra. Si pensi alla Francia, che a fronte del problema immigrazione al momento non pare aver trovato altre strade che quella di nuovi controlli alle frontiere (soluzione che si sta espandendo un po’ ovunque in Europa, con buona pace di Schengen e dell’integrazione europea) e di fronte al gravissimo problema del terrorismo islamico e della sicurezza sta rivedendo la costituzione per introdurre una misura molto simbolica, muscolare, ma risibile quanto agli effetti che può produrre, oltreché discutibile sul piano dei principi, ovvero togliere la cittadinanza francese a chi è condannato per terrorismo. Così Hollande pensa di contrastare Marine Le Pen.

Si guardi inoltre al Regno Unito, che ha trovato la disponibilità del Consiglio europeo ad alcune sue richieste, ottenendo risposte che vanno nella direzione di un sempre minor impegno britannico, della possibilità di escludere i lavoratori stranieri dai benefici del welfare nazionale, oltre che di nuovi vincoli – poteri di veto – nel processo decisionale dell’Unione. Con le sue pretese nei confronti dell’Ue Cameron pensa di fronteggiare l’euroscetticismo britannico (in vista del prossimo referendum sulla permanenza nell’Unione, al quale si è condannato lui stesso) e contenere i “suoi” populisti dell’Ukip; purtroppo, però, cedendo ad esse, come notava Carmelo Palma su questa stessa testata, si mettono in moto pericolose spinte centrifughe, aprendo a sempre nuove rivendicazioni dei governi nazionali. E forse, chissà, proprio in vista di quelle rivendicazioni l’Italia, per bocca del suo ministro degli esteri Gentiloni, ha mostrato una strana concordanza di vedute con i britannici. Se la storia insegnasse qualcosa, si saprebbe che rendersi disponibili alle richieste particolaristiche non fa che produrre nuove richieste e rafforzare chi cavalca in modo più radicale le istanze disgregatrici, come illustrano i casi di “federalizzazione” della Spagna e, in particolare, del Belgio.

Ma la storia, si sa, non è in realtà maestra di nulla. E in questa Europa in crisi, tra le altre cose, anche di leadership, il rischio è che leader politici privi di idee e visioni cerchino di arginare populismi ed estremismi inseguendo temi e agende di populisti ed estremisti, distruggendo così quanto costruito da ben altre generazioni di leader.