Partendo da un articolo di Benedetto Della Vedova, apriamo una riflessione a più voci sulla paradossale impoliticità della proposta politica liberale in Italia. Critiche, autocritiche, analisi e impegni di autori diversi, più o meno interessati e partecipi alle sorti della "causa".

salerno Copia

Riguardo al dibattito in corso circa miserie e virtù del “mondo liberale”, vorrei dire la mia focalizzando l'attenzione su due particolari profili del dibattito:
- il legame tra "proposta liberale" e "liberali";
- il contenuto dei termini "proposta liberale" e "liberali".

Gli approdi del confronto, ad oggi, mi pare abbiano evidenziato che una qualche "proposta liberale" ci sarebbe pure (salvo la verifica su quali siano o dovrebbero essere i suoi contenuti), mentre a mancare sono i "liberali", intesi come presenza politica autonomamente organizzata e concretamente riconoscibile. Ciò determina che la “proposta liberale” non trova attuazione se non per sporadici e frammentari interventi in un contesto fortemente collettivista e conservatore nel senso deteriore del termine.

Molte sono le cause indagate di questa conclamata inesistenza/impotenza. In particolare, nella serie di articoli dedicati al tema, Simona Bonfante bene ha evidenziato la scarsa politicità tout court dei liberali, e i limiti intrinseci che l’azione politica dei liberali, quando c’è, presenta: elitarismo e scarsa creatività. Ha certo ragione: sulla impoliticità, basti richiamare quanto è diffuso l’atteggiamento del concionare di ideali&progetti laici/liberali/liberisti/libertari, per poi astenersi dal muovere un dito se si tratta di firmare una lista elettorale o dare uno straccio di voto.

Eppure, benché a fatica, al riguardo non si sono mai dati per domi una frazione piccola ma pugnace di amici che, a volte da posizioni differenti, quando non contrastanti, si spende all’interno di quel poco di politicamente organizzato che esiste in ambito liberale per affermare la “proposta liberale”. Parlo, almeno ad oggi, degli amici del Partito Liberale, di Scelta Civica, di Italia Unica e di una buona serie di liste civiche, associazioni culturali e riviste che non intendono soccombere e rimanere irrilevanti, per sapendo di non essere oggi né rilevanti, né di fatto rilevabili nel mercato politico italiano.

Tuttavia, se di questi soggetti parliamo in termini di irrilevanza (chi scrive è iscritto ed attivo in quasi tutti questi soggetti, quindi absit iniuria verbis), probabilmente è perché il limite politico (e il vizio intellettuale) dell’elitarismo e del paludamento, in un sistema democratico basato sul voto di tutti, non lascia scampo. Troppo consolidata è I’abitudine di fare discorsi “liberali” solo tra “liberali”, e troppo radicato è il fastidio per quella che viene intesa come inescusabile ignoranza, se non esplicita malafede, della massa degli italiani; quasi che i “liberali” abbiano in tasca verità scolpite nell'assoluto e le masse siano colpevoli per non saperle cogliere.

Allo stesso modo non si sfugge all'implacabile accusa di scarsa creatività, che a me pare spesso vero e proprio conformismo: salvo sporadiche eccezioni [tra cui inserirei i multiformi Liberalcampisti], la risposta "liberale", ovvero la risonanza che dalla “proposta liberale” discende sulle sollecitazioni che giungono dalla società, è sempre pressoché scontata, ripetuta e prevedibile. Un’eterna ripetizione di princìpi fissati dai grandi pensatori liberali, quasi esistesse una qualche bibbia liberale e potesse valere, anche per noi, il principio - molto illiberale - dell'ipse dixit.

E non solo: pur dicendo sempre tutti più o meno la stessa cosa, la risposta è spesso frammentata, diversificata ed estremizzata per correnti, bande, tribù. Si pensi al tema delle unioni omosessuali, avallate da tutti coloro che hanno a cuore la libertà dell’individuo, ma con distinguo e asticelle sempre più alte, sino all'affermazione della necessità di estromettere lo Stato da tutte le questioni "private", come matrimonio e figli. Anche suggestiva, sul piano filosofico, la posizione.... Ma politicamente sterile e "muta" per il 99% di quelli che incontriamo quotidianamente per strada e che invece convengono (o divergono) su un concetto più concreto e percepibile, quello dell'uguaglianza di fronte allo Stato e alla legge tra coppie etero e gay.

Qui vorrei collocare il mio primo contributo: è per me evidente che in democrazia, quando si vuole affermare un progetto politico (il che significa “conquistare il potere”; questo è il concetto, non ne esistono altri, se no stiamo al circolo delle carte), non si può pensare di far calare semplicemente sulla testa del popolo lezioni cattedratiche di sorta: viceversa, con tutta l’umiltà del caso, ci si deve porre all’ascolto dei cittadini per raccoglierne le istanze più e meno sentite, possibilmente tutte.

Ciò non significa - e ci mancherebbe - diventare populisti (e men che meno demagogici). Significa passare dalla “proposta liberale” preconfezionata all’ “ascolto liberale”, ovvero avviare un doveroso e faticoso procedimento di raccolta e cernita di queste istanze, per scegliere e portare avanti quelle più o meno compatibili con i valori e le "proposte liberali" storicamente intese e note, pazientemente raccordandole in un efficiente sistema di domanda e offerta politica dove non sia negata la domanda (elitarismo) né snaturata l'offerta (conformismo).

Per un mondo come il nostro, da tempo inesistente sotto il profilo elettorale e dunque ancora lontano dal conquistare il potere, significherebbe modellare ed esercitare una leadership riconoscibile che possa essere sostenuta non solo dai “liberali” a quattro quarti di nobiltà, ma anche dal più vasto numero possibile di cittadini, a cui di Locke, Popper o Rothbard e dei relativi scritti, in fondo, non può interessare di meno.

Il campo è minato ma cruciale: si pensi alla questione immigrazione come esempio di istanza fortemente sentita dalla totalità della cittadinanza, o alla legalizzazione delle droghe leggere quale istanza avvertita solo da una minoranza della popolazione. Sono entrambe istanze perfettamente compatibili con l’azione liberale e che una leadership seria non potrebbe in alcun caso ignorare: ci si deve porre la domanda di che fare, che piaccia o no; e sono entrambe istanze a cui una efficace risposta liberale può e deve essere data.

In qualche modo, insomma, si dovrà pur prendere atto che se il “vuoto liberale” è anche un po' colpa del "sistema", poiché vi sarebbe “una frustrante assenza di spazio per l'affermazione di idee liberali” come accennato nel dibattito dei giorni scorsi, il "sistema" va occupato nel maggior spazio e minor tempo possibile con la miglior grinta sfoderabile. Credo molti condividano anche, e si è già detto nel dibattito in corso, che l’azione di riscossa genericamente descritta sarebbe di molto agevolata dalla “comparsa di qualche liberale autentico, dotato di carisma, credibilità e leadership, che sia un po' meno scettico e abbastanza idealista da lanciarsi nell'impresa di vincere la diffidenza dei suoi simili, e riesca ad aggregare il loro consenso in un progetto capace di trovare il suo spazio nel paese della politica clientelare." Ritengo sostanzialmente corretta questa precisazione, e ne segnalo l'attuale e peculiare utilità: non è che manchino le occasioni e le individualità eccellenti in campo liberale; a mancare è proprio la cultura del lavorare insieme per vincere, riconoscendo e sostenendo una leadership.

Invece devo dissentire sul fatto che il “leader” potrebbe portare alla vittoria chicchessia aggregando solo il consenso dei suoi simili, oggi dispersi e litigiosi. Il consenso va cercato e organizzato, come si suol dire, mirando alla vocazione maggioritaria, quindi necessariamente poggiando su una base elettorale indistinta, non preselezionata, ma numericamente consistente. Se no, come già detto, stiamocene nelle catacombe a custodire ossari. Peraltro, la vocazione maggioritaria - che non è l'illudersi di vincere partendo da zero o sotto-zero, ma lo sforzarsi di parlare da liberali a tutti e non solo ai liberali - è una condizione indispensabile anche per raggranellare una presenza minoritaria, ma politicamente "esistente". Se si parla a tutti, si arriva a qualcuno. Se si parla solo a qualcuno, non si arriva a nessuno.

Le ultime esperienze osservabili mi pare fungano da monito: quante formazioni “liberali” (o anche presunte tali) sono scomparse nottetempo per autodistruzione senza apparenti motivi se non la più pura follia? E ciononostante, quante tra le formazioni superstiti, spesso incapaci di un qualunque pensiero originale, di una qualunque azione innovativa in ambito elettorale e più generalmente nel rapporto con il cittadino, pensano seriamente a unire le forze per offrire un unico riferimento vincente e efficace, che poi, nel nostro caso e alla luce dell’Italicum, significa per il momento superare la soglia del 3% per esistere, e poi crescere fin dove possibile? Quanti pensano davvero si possa vincere, non dico (ovviamente) le prossime elezioni, ma questa sfida di esistenza? Quanti esistono per non morire, ma non per vivere (politicamente)? Troppi, in questo caso, decisamente.

Insisto sul punto perché è dirimente: in attesa del Nuovo Principio Ordinatore, quasi un Gengis Khan “liberale” che arriva e impone all’”AREA LIBERALE” (qualunque cosa ciò significhi) l'ordine e la reductio ad unum tagliando le teste e strutturando le catene di comando e le truppe a colpi di carisma-buone idee-ottima base e dirigenza (inutile aspettarlo, non arriverà), ci sarebbe un metodo abbastanza accessibile e noto per superare il cupio dissolvi, la diaspora e la conseguente irrilevanza. Moltiplicare gli sforzi per amalgamare progressivamente le energie e le idee delle formazioni liberali oggi pulviscolari, attraverso la condivisa e volontaria subordinazione di tutti alle regole che ci si potrà dare insieme.

In altri termini, serve oggi un qualche processo costituente di un soggetto politico-partitico e di una leadership che possa dirsi “liberale”, che sappia ascoltare la poca o tanta “domanda liberale”, su cui ora tornerò, e che possa poi offrire una “proposta liberale”. Nelle condizioni attuali è l'unica strada realistica, per quanto difficile, lunga, irta di fallimenti. Assai più realistica che aspettare un miracolo o l'avvento di un taumaturgo.

D'altra parte, se i "liberali" italiani per primi non danno credito a un soggetto “liberale” unito e competitivo, che sappia ascoltare e parlare alla maggioranza, perché mai dovrebbero darvi credito i cittadini-elettori? Sarà un argomento banale ma, stante l’Italicum e le proiezioni di voto (ed in ogni caso l’irreversibilità della logica maggioritaria), a questo punto si tratta di decidere se soccombere definitivamente o darsi da fare senza porsi a priori limiti su come e dove arrivare.

In questo senso, le proposte non mancano: è emerso dal dibattito, ad esempio, e personalmente appieno condivido, che per ritrovarsi/riunirsi come gruppo, avere peso e riscontro nei cittadini italiani si deve riportare al centro del pensiero e dell’agire politico dei “liberali” una nuova Utopia liberale, che possa declinarsi in posizioni radicali e intransigenti circa i valori e i principi che sono il distillato storico e politico del nostro “mondo” (o sconfinato universo…): citando Hayek, nel dibattito, si è detto ad esempio: “ “Utopia liberale, ovvero un programma che non rassomigli né ad una mera difesa dello status quo, né ad una sorta di socialismo temperato, ma che si manifesti invero come un radicalismo veramente liberale".
In questo senso, il radicalismo è sacrosanto, direi.

E infatti: cosa più di un’UTOPIA infiamma la mente di ogni rivoluzionario che si rispetti? E cosa più di una promessa rivoluzione potrebbe far battere il cuore (e conseguente scheda elettorale) a un popolo intrinsecamente e contraddittoriamente tanto anarcoide, quanto collettivista? Né si può negare che solo l’indicazione di un’Italia radicalmente diversa dall’attuale e la pratica di un'intransigente lotta per gli ideali e programmi liberali potrebbe ridare quella credibilità non più riconosciuta al mondo liberale; potrebbe agevolare la coesione dei liberali; potrebbe soprattutto aiutare a mondare la "proposta liberale" dai fronzoli socialisteggianti, irrealistici, controproducenti, finanche illiberali che qua e là sovente affiorano. Sul punto, tuttavia, personalmente ritengo che questo "radicalismo" possa valere più per la coesione interna e l'immagine esterna del gruppo, cioè per l'individuazione dei "liberali", che non per la definizione di un metodo di ascolto e di costruzione di una proposta liberale.

Mi spiego: al di là dell’indiscutibile comune primigenio valore della libertà individuale, la "proposta liberale" entro cui accogliere le già menzionate istanze che dai cittadini giungono alla politica, non può, e a mio avviso comunque non deve, essere dogmaticamente tracciata. Noi non siamo il popolo di nessun libro. Siamo, ritengo, gli esecutori di un metodo, che negli ultimi tre secoli ha già dato splendidi frutti, ma che per fortuna non si sclerotizza in alcun traguardo. Se non stiamo raccogliendo altrettanto splendidi frutti, forse è ora di rivedere il metodo, proprio in omaggio al metodo. Ed infatti, se è vero che con le parole d’ordine d’oggi una proposta liberale passerebbe per un’imposizione di lacrime e sangue dal punto di vista economico, è altrettanto vero che possiamo adeguare gli strumenti a disposizione per raggiungere quegli stessi e anche migliori risultati. Senza necessariamente darci per impiccati al pessimismo (o al velleitarismo).

E allora, come costruire una “proposta liberale” che possa avere un sostegno importante e comunque tale da rivoluzionare l’Italia per renderla un moderno paese attestato sui più eccellenti standard europei in termini economici, politici, sociali e culturali, senza che ciò condanni inevitabilmente all’irrilevanza elettorale? Da dove trarre la spinta?

La mia modesta proposta parte da una constatazione: la proposta liberale non è affatto strutturalmente minoritaria, dato che ha oggettivamente permeato di sé l’evoluzione dell’occidente degli ultimi secoli; può darsi che in ambito europeo e italiano in particolare altri centri di aggregazione politica abbiano meglio performato in termini elettorali e di presenza di governo, ma è innegabile che tutti, chi più chi meno, dai socialisti ai conservatori, abbiano letteralmente saccheggiato temi e proposte, quando non anche uomini, dal mondo liberale: non vi accorgete che sotto questo profilo il pensiero liberale ha già vinto?

E non è neppure vero che manchi il “terreno” coltivabile liberale. Forse manca quello che piacerebbe ai puristi, ma è innegabile che, per quanto imperfette, plebee e culturalmente opinabili, al termine di un ventennio sotto ogni profilo discutibile, in Italia siano divenute largamente maggioritarie le naturali pulsioni individualistiche al miglioramento di sé e della propria condizione, pur quando a coltivare questa speranza siano cittadini attaccati alla greppia pubblica o a qualche rendita para-assistenziale. Queste pulsioni possono e devono essere intercettate, decifrate e rese oggetto di una proposta politica secondo uno “schema frattale”.

Un frattale è un oggetto geometrico dotato di omotetia interna, ovvero che si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse: ingrandendo una qualunque sua parte si ottiene una figura simile all'originale. Sembra caotico a prima vista, ma tende solo all’infinito ripetendo se stesso.

Parimenti, i “liberali” dovrebbero definire la propria “proposta liberale” applicando in termini progressivi e ad ogni livello il metodo liberale a (quasi) tutte le istanze che giungono dalla cittadinanza, e non calando le proprie preconfezionate risposte sulla cittadinanza; così da agevolare l’affermazione, sul caos delle esigenze individuali e sociali e sulla dura necessità del mondo, di una diffusa condizione coerentemente liberale su ogni piano, individuale e sociale, culturale o economico.

Nel concreto ritengo sia possibile:

a) Partire dalle istanze che DALLA cittadinanza giungono alla politica e non viceversa;
b) Passare dai "liberali" che selezionano dette istanze scegliendo tra esse le più compatibili con i princìpi valoriali liberali, ovvero la famosa "utopia";
c) Proseguire con il metodo, ovvero il vaglio della ragione al servizio dell’individuo inserito in una società, che valuta se tali istanze possono, e in che misura, essere rese compatibili al meglio con il fine ultimo della massima libertà individuale per il massimo numero di individui possibile attraverso la più estesa libertà economica;
d) elaborare a quel punto una proposta comprensibile che possa portare il cittadino a riconoscere la propria istanza come accolta e valorizzata;
e) e approdare alla agognata attenzione dell'elettore (la crocetta sulla scheda elettorale) per le loro stesse pulsioni (idee e progetti) che, così elaborate, vanno nella direzione della “rivoluzione liberale” come sopra descritta.

E perché ritengo possa funzionare? E cosa c'entra il frattale? Secondo me tutte (o quasi, naturalmente) le istanze della cittadinanza, in apparenza caotiche, periferiche, incomprensibili, dal più infimo livello al più elevato, possono e devono essere accolte e tradotte in un’elaborazione propositiva, che alla fine possa dirsi liberale e preferibile anche dalla maggioranza dei cittadini rispetto alle preminenti soluzioni collettivistiche, illiberali o dogmatiche: dall’esigenza di strade prive di buche, di quartieri sicuri e pure, per chi vuole, di andare a prostitute, all’imperativo di avere i conti in ordine per evitare la bancarotta dello Stato, alla minor pretesa fiscale possibile, all’efficienza della macchina statale.

Lo schema è e deve essere sempre quello, per ripetere ad ogni livello, proprio come un frattale, la medesima ricerca del miglior assetto, necessariamente progressivo ma che parte dalla periferia caotica per arrivare a un centro ordinato, facendo leva sul valore ultimo della libertà e felicità che (quasi) ogni cittadino avverte come irrinunciabile, per arrivare al fine che ci si è proposti, ovvero la rivoluzione liberale in Italia. Che, sia chiaro, non avviene in un mese. Si tratta di un incessante lavorio di raccordo tra cittadino e libertà, ad ogni livello e tendenzialmente infinito, partendo però proprio dai cittadini per commisurare a essi la proposta politica.

Esempio spigoloso: la situazione invivibile di taluni quartieri a seguito di una immigrazione concentrata e di bassa qualità. Pur senza volere (mal) giudicare nessuno, è onesto e razionale riconoscere che un qualunque individuo che acceda ad una buona istruzione, per lo più, consegue una maggior libertà di pensiero e offre agli altri individui contributi di maggior qualità rispetto a un individuo scarsamente alfabetizzato e magari prono a schemi culturali, per dir così, arretrati e "pittoreschi". Non servono esempi, suppongo.

Bene, per non lasciare ipocritamente inascoltato quel doppio disagio, di chi subisce la cattiva compagnia di altri e di chi non riesce a emanciparsi dalla cattiva condizione propria, e se non si vuole genericamente ripercorrere la strada di un’assistenza scarsamente morale prima ancora che inefficiente, una risposta si deve pazientemente costruire, prospettando ad esempio la possibilità, in quegli stessi quartieri, di una effettiva emancipazione personale, mediante strutture "di eccellenza" di educazione e istruzione che valorizzino e premino (o scartino) secondo criteri di puro merito i candidati all'integrazione. In che modo? Incentivando la responsabilità verso se stessi e la insopprimibile pulsione a migliorarsi facendo leva sul proprio talento e sulla propria capacità d’intrapresa per godere di quel tenore di vita (per sé o per i propri figli) che si sperava di raggiungere abbandonando il proprio paese.

Pare forse una proposta minima e troppo gradualistica, interessando di volta in volta piccoli numeri. Ma è un passo che tutti noi sappiamo essere efficiente, anche se complicato. Non è molto diverso da quello che è avvenuto, su vasta scala, nel continente nord-americano negli ultimi 30 anni, e che non ha risolto del tutto i problemi di marginalità della popolazione immigrata, ma ha ad esempio consentito a due figli di rifugiati cubani, Rubio e Cruz, di presentarsi oggi come i più seri candidati alla presidenza per il GOP.

Con ogni probabilità un piccolo/grande primo passo di questo tipo comporterebbe l’acquisizione del consenso di chi è capace di collegare il proprio disagio con l’aspirazione al miglioramento. Ed il passo “frattale” successivo sarebbe quello di avviare la riqualificazione urbana di questi quartieri “perduti”.

È uno schema frattale proprio perché, da qualunque punto parta il primo passo, di volta in volta si farà un altro passo identico nel metodo e nello scopo finale, ad uno stadio e livello più avanzato, per dare centralità all’individuo e alle sue doti e così progressivamente ridurre le inefficienti spinte contrarie. Si faccia dunque il primo passo, o almeno si provi a farlo.