Partendo da un articolo di Benedetto Della Vedova, apriamo una riflessione a più voci sulla paradossale impoliticità della proposta politica liberale in Italia. Critiche, autocritiche, analisi e impegni di autori diversi, più o meno interessati e partecipi alle sorti della "causa".

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È possibile un liberalismo politico, visti i dilemmi e le contraddizioni che caratterizzano il mondo intellettuale e morale che dovrebbe esprimerne la forza? Nella bella serie di articoli sulle prospettive del mondo liberale (che non c’è), pubblicati finora su Strade, ho ritrovato tutte le contraddizioni e i dilemmi che oggi lo “definiscono” (e ne “definiscono” l’inesistenza).

Dilemmi e contraddizioni? Negli articoli ho trovato l’idea di un liberalismo possibile solo se gradualista e insieme l’idea di un liberalismo possibile solo se radicale; l’idea che le riforme liberali passino dallo Stato, per decisione centrale, magari contro le comunità locali (come contenitori di interessi particolari), e l’idea che una società liberale sia possibile solo nella lotta di una società che si riscopre autonoma e anche antagonista rispetto lo Stato. Potremmo continuare con le contraddizioni che tormentano quanti onestamente si considerano liberali (come gli autori degli articoli): da un lato la ricerca dell’efficienza, che almeno apparentemente comporta centralismi e concentrazioni, e che in questo impone la necessità di “meccanizzare” la risposta degli uomini, e dall’altro l’amore per le libertà, che necessariamente presuppone autonomia – e quindi errori e disordine – ma comporta anche innovazione e richiama a un senso di responsabilità per le conseguenze delle azioni.

Vogliamo continuare con le contraddizioni dei liberali? Individualisti, cultori della libertà, liberi pensatori, timorosi e insospettiti dalle masse e dell’idea stessa di società, che, per rendere comunque possibile e reale la libertà cui ambiscono, dovrebbero però divenire scienziati sociali o (peggio ancora) politici, facendo in modo che l’impegno intellettuale incontri le forze della società e prenda parte delle lotte sociali, fino a diventarne “coscienza” e a guidarne in corso. Di quale liberalismo andiamo dunque parlando? Del liberalismo delle riforme attraverso lo stato centralista e forte o del liberalismo delle autonomie? Del liberalismo dei percorsi, almeno apparentemente, più diretti e brevi alla modernità, o del liberalismo che lascia agli uomini, ai “piccoli” uomini e alle loro comunità, la libertà e la responsabilità dell’emergere di un futuro inimmaginato e inintenzionale?

Potrei continuare a elencare le alternative dei liberalismi possibili per pagine e pagine, ma penso che si sia colto come, a mio parere, le difficoltà del liberalismo non derivino tanto dall’inadeguatezza degli uomini, ma dall’oggettività di dilemmi e dall’impossibilità di uscirne seguendo un filo di coerenza puramente formale. Oggi, con il mondo liberale ridotto politicamente a zero, è venuta a mancare una gravità che ancorasse i liberali a un insieme coeso di posizioni e proposte. Siamo alla nebulosa liberale, in cui l’assenza di ogni vincolo tra i singoli dà luogo a un liberalismo potenzialmente infinito in cui ogni posizione politica potrebbe trovare posto. Rimettere in moto un processo di aggregazione significa reintrodurre delle aggregazioni gravitazionali, processo che non può che essere “locale” e “casuale” (o spontaneo, se preferite il termine).

I liberali sono contraddittori e tormentati, rispettosi della complessità della realtà e delle sue reazioni impreviste ai programmi e alle decisioni umane; non possiedono un’ideologia che sciolga magicamente i dubbi e semplifichi le soluzioni in modo immediatamente “popolare”: sono insomma quanto di meno adatto si possa immaginare all’azione politica. Però, non paradossalmente, danno il meglio di sé nelle situazioni critiche e estreme, dove le urgenze e le necessità forzano le incertezze. Danno invece il peggio quando sono blanditi dal potere, e, sensibili al fascino del potere ma, ancor più, convinti di poter fare qualcosa di buono, si ritrovano a fungere da puntello di regimi o coalizioni politiche in genere assai poco liberali.

Sembrerebbe quindi la nostra una situazione disperata… e in parte lo è, sicuramente; sappiamo tutti, almeno istintivamente, che le scelte politiche sono determinate da rapporti di forza, e che la politica stessa è una lotta che ha per attori forze sociali mobilitate e guidate, e quindi ci rendiamo conto dell’impotenza dei liberali. Ma la situazione rimarrà disperata solo se rifiuteremo di accettare che oggi non ci sono le condizioni per una politica liberale semplicemente perché non c’è alcun soggetto politico liberale, e non c’è alcun soggetto politico liberale perché la riflessione teorica liberale non ha ancora acquisito le caratteristiche di una vera riflessione politica.

Quando la riflessione teorica diviene prassi politica? Quando da reti di intellettuali (non necessariamente “professionali”) che condividono principi e idee ma non vincoli organizzativi, si iniziano a formare gruppi dirigenti, che condividono una base comune di idee ed in più si legano in un progetto comune, divenendo così capaci di decisione e azione organizzata. Non mi pare di indicare così la soluzione di dilemmi “ontologici” (che rimangono intatti), ma la condizione necessaria per un liberalismo reale, che passa per la costruzione di gruppi dirigenti liberali (capaci di governare ed elaborare anche quei dilemmi). Per qualunque avventura politica, di maggioranza o di minoranza, non esiste popolo senza che esista un’élite in grado di mobilitarlo. Parlo a proposito di gruppi, al plurale, perché il liberalismo dei dilemmi e delle contraddizioni non potrà prescindere da questi oggettivi elementi di divisione. Non potrà superarli, potrà solo governarli. Occorre sforzarsi di fare in modo che queste diversità non diventino settarismi, perché l’attuale debolezza del liberalismo è nel settarismo, nella incapacità di sviluppare l’arte di associarsi tra uguali e liberi e diversi. Piccole aggregazioni, forze centripete che lungo diverse scale geografiche o ideologiche consentano la costituzione di gruppi funzionanti come “centri direttivi” politici: questo è il passo necessario. Senza dimenticare l’esigenza di strumenti, come Strade – giornali, sedi di riflessione e di scambio, pensatoi spontanei… – che assicurino il collegamento e stimolino il confronto tra questi gruppi embrionali, per arrivare a costruire un linguaggio e un metodo comuni.

Un’agenda condivisa potrà seguire, ma non se prima non si sarà sviluppato un comune linguaggio e non ci si sarà dati un metodo e un’attitudine ad affrontare le diversità come opportunità, non come fastidi o come minacce. Certo, non bisogna avere fretta. Dovremmo sapere che se qualcosa ha distrutto le prospettive dei liberali in Italia è stata la fretta, il senso indifferibile di urgenza: lo sviluppo dei partiti politici - quelli veri - richiede tempo, come per i buoni vini. In nome dell’urgenza ci si è trovati a inseguire chimere politiche con esiti disastrosi.

Ecco, forse serve un po’ più di fiducia ai liberali, fiducia in se stessi e nella forza delle proprie idee; serve poi l’umiltà, quella necessaria a capire che il “tutto subito” era uno slogan stupido e dannoso anche nel ‘68. Già Tocqueville ci ammoniva che la sfida dell’uguaglianza sarebbe stata sulla capacità delle persone di associarsi [1], e l’arte di associarsi è tutto fuorché una Blitzkrieg. Questa che stiamo vivendo è un’epoca di uguaglianza come mai è avvenuto nel passato, e ci richiede uno sviluppo estremo dell’arte di associarsi. Nel mondo liberale ci si è forse un po’ troppo dimenticati delle ammonizioni di Tocqueville, ma se oggi vogliamo che la nostra società abbia un futuro di cui non vergognarci, sarà bene ricordarcele. Quanto ai dilemmi e alle contraddizioni del liberalismo possibile, sarà bene non spaventarci: se sapremo acquisire metodo e organizzazione, esse saranno la linfa vitale di un liberalismo reale che potrà emergere solo nel duro confronto (o stimolante incontro?) con la realtà, col momento storico. Dovremmo essere fiduciosi: all’incontro con la realtà potremo presentarci armati di bussola, strumenti di navigazione e principi, perché possiamo contare sulla ricca, variegata, lunga e ancora viva storia del pensiero liberale. Le nostre difficoltà politiche non dipendono dalle nostre idee contraddittorie, ma dal nostro maldestro “mestiere”.

 


[1] "Tra le leggi che reggono le società umane, ve n'è una che sembra più precisa e più chiara delle altre. Perché gli uomini restino civili, o lo divengano, bisogna che tra loro l'arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni, nella stessa proporzione in cui aumenta l'uguaglianza delle condizioni".