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Il trattato di Schengen è a rischio, lo sottolineano le stesse autorità europee, e si moltiplicano gli appelli per 'salvarlo'. Ma il rischio non dipende dalla cattiva volontà degli stati aderenti, quanto piuttosto da una situazione che impone ai decisori scelte obbligate. Come spesso avviene nelle vicende europee, sotto la superficie degli scambi di accuse tra i rappresentanti dei governi, si intuisce il loro comune e drammatico senso di impotenza, e la frenetica ricerca di soluzioni tampone, sperando che l'emergenza si risolva da sé in qualche modo, e senza imbattersi nel problema dei problemi: tutelare le rispettive sovranità.

È questo un aspetto che forse non si sottolinea abbastanza: la crisi dei migranti pone i paesi europei di fronte a un dilemma oggettivo: o costituire una frontiera esterna comune, gestita condividendo le responsabilità, le risorse e le forze, oppure assistere a un processo spontaneo di dissoluzione dello spazio europeo di libera circolazione delle persone. Terze soluzioni, si ha l'impressione, sembrano possibili solo in termini di espedienti provvisori. Come spesso avviene nelle escalation internazionali, entrambe le possibilità hanno natura di processi evolutivi automatici, non influenzabili da volontà o scelte dei soggetti coinvolti.

Il processo di 'implosione' di Schengen - paventato in questi giorni da lady Pesc, Federica Mogherini - è già forse iniziato, con la chiusura delle frontiere interne decisa unilateralmente da alcuni paesi. L'attivazione eventuale nei prossimi mesi dell'art. 26 del trattato che reintroduce i controlli alle frontiere interne per due anni nelle circostanze straordinarie di 'minaccia sistemica e persistente', rischia di essere la presa d'atto formale di una dissoluzione spontanea dello spazio comune. La conseguenza di una sospensione di Schengen non è solo grave perché riduce la libertà personale degli europei. Può avere plausibilmente un effetto 'prociclico' tale da rendere impraticabile il ripristino dell'accordo, perchè implica abbandonare i singoli paesi a se stessi nel gestire una crisi migratoria epocale, aggravando esponenzialmente la loro condizione, e compromettendo gravemente nei prossimi anni le relazioni internazionali.

Per contro una frontiera esterna comune, gestita collegialmente con responsabilità condivise, implicherebbe intervenire nella giurisdizione territoriale sovrana di alcuni stati. Si tratterebbe di un'opzione accettabile solo a condizione di una cessione equa di sovranità da parte di tutti: non è pensabile che le autorità tedesche o francesi controllino i confini italiani o greci o viceversa. La costituzione di un confine territoriale europeo porrebbe però il problema di definirne modalità paritetiche di nomina degli organi di governance, e l'unico metodo efficace sarebbe ricorrere a elezioni politiche uniche per l'area Schengen. Altri meccanismi infatti per quanto corredati di sanzioni e di 'regole di irreversibilità', rischierebbero di essere spazzati via da decisioni di governi imposte da esigenze di consenso interno durante le emergenze, se non di tenuta delle stesse istituzioni. In sostanza, una frontiera europea sarebbe forse l'unica soluzione per 'salvare' Schengen, ma rappresenterebbe un passaggio irreversibile verso un'unione politica europea.

Come già avvenuto con la crisi greca e dei debiti sovrani, l'ondata migratoria mette l'Europa di fronte alle sue contraddizioni. Come non é possibile per una donna fingere di essere incinta in eterno, non è possibile per l'Europa continuare a essere un aggregato di stati indipendenti che si finge unico stato sovrano, simulando un'unione fiscale o in questo caso, una frontiera comune.