strada schengen

La crisi del Trattato di Schengen sulla libera circolazione è frutto della stessa illusione che sta mettendo seriamente a repentaglio l’unione monetaria europea: l’idea che l’integrazione europea possa essere un processo di mero coordinamento, in cui ogni Stato “fa l’europeo” finchè si può e finchè conviene a vincere le prossime elezioni, ma dove non c’è nessuna reale cessione di sovranità verso il “governo federale”, peraltro privo di una vera legittimità democratica.

L’euro non accompagnato da una politica fiscale comune e da una piena mobilità dei fattori produttivi (gli strumenti che permettono, ad esempio, all’Alabama o al Mississippi di avere la stessa moneta della California e di New York) è come Schengen privo di una polizia di frontiera comune. Tutto funziona finchè le cose vanno bene, ma le ambiguità e le debolezze emergono al primo vento di crisi economica o sociale. A pagare il prezzo maggiore della fine di Schengen (o dell’euro) sarebbe anzitutto la generazione dei "nativi Schengen", milioni di europei nati e cresciuti in un continente senza frontiere, abituati a muoversi liberamente, a pensarsi di mattina a Milano e di pomeriggio a Berlino. Nativi Schengen che, in molti casi, non appaiono nemmeno troppo consapevoli di quanto la loro libertà personale sia oggi a rischio.

Per decenni si è scritto, detto e ripetuto a litania che l’Europa Unita è un “gigante economico, un nano politico e un verme militare”. Trovate questa definizione persino nei manuali di diritto comunitario, quasi come se fosse un elemento costitutivo. E lo è, perché la totale incapacità dell’Europa di giocare un ruolo unitario e coerente sullo scacchiere mediterraneo e medio-orientale è una causa di primo piano dell’emergenza profughi. Da un punto di vista politico, l’Europa è nelle mani dei leader nazionali ed esclusivamente alle loro esigenze nazionali di consenso. Immaginate se, in Italia, per una riforma delle pensioni o per la legge di stabilità ci fosse bisogno di un voto favorevole di una maggioranza dei presidenti delle regioni, ognuno interessato a portare a casa un risultato positivo a scapito degli altri. E’ semplicemente folle quel che accade nel Consiglio Europeo, un’istituzione dove i partecipanti sanno perfettamente quale sarebbe l’interesse generale europeo ma sono “condannati” ad anteporre a questo la loro sopravvivenza politico-elettorale. E’ il dilemma del prigioniero, come si direbbe in teoria dei giochi.

Giunti al punto in cui siamo, in mezzo ad un insostenibile e pericoloso guado, possiamo accontentarci di soluzioni di piccolo cabotaggio (vedi il vertice di ieri) o possiamo rivendicare la necessità di un cambio totale di paradigma. Nelle parole dei principali interpreti del populismo europeo, l’Europa è il capro espiatorio perfetto, un luogo indefinito, popolato da gnomi malefici che ogni giorno complottano e sabotano alle spalle dei popoli ignari. Con toni a volte nazionalisti, a volte semplicemente ignoranti, costoro usano una debolezza reale – l’assenza di volti politicamente riconoscibili, di un presidente dell’Europa per capirci – per favoleggiare di un futuro in cui ognuno si riapproprierà del proprio potere decisionale. E’ una menzogna, una illusione, un gioco delle tre carte. Gli Stati nazionali europei, inclusa la “grande” Germania, sono inadeguati e incapaci a gestire da soli fenomeni di natura e portata globale.

Il cambio di paradigma di cui abbiamo davvero bisogno per riappropriarci della nostra libertà è di una Europa più forte, coesa e unita economicamente, politicamente e militarmente. Spetta ai nativi Schengen decidere che ruolo avere nella storia: quelli che passivamente assistettero alla fine del Vecchio Continente come spazio civile di libertà e unità nella diversità, o quelli che superarono le vecchie miopie e si appropriarono del loro diritto all’Europa.