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Su nessun tema come l'immigrazione la debolezza europea è una somma di debolezze nazionali e nazionaliste e della frivolezza intellettuale di classi dirigenti, che maneggiano la materia senza sapere di cosa parlano e senza neppure volerlo sapere.

Così la strategia dello struzzo - mettiamo la testa sotto la sabbia del pregiudizio, per non vedere la realtà del pericolo - rivestita di un enfasi combattente ed eroica contro "l'invasione straniera" sta conquistando in gran parte d'Europa - e ha già conquistato in Italia - una vera e propria egemonia culturale. Non solo, si badi, una certa rispettabilità - si può chiedere ad esempio senza scandalo, a diversi livelli, l'introduzione di clausole discriminatorie in senso etnico, religioso o nazionale, irridendo chi eccepisca ragioni di principio e opportunità - ma pure una riconosciuta razionalità pratica.

La discussione surreale, che si è riaccesa in Italia, sul reato di immigrazione irregolare, che, nella migliore delle ipotesi, accresce semplicemente i costi e le complicazioni burocratiche dell’espulsione dei cosiddetti clandestini, dimostra che su questo piano non c'è nulla di più concreto dell'astratto e di più politico del simbolico. La clandestinità deve essere reato, perché solo la punizione del colpevole libera la vittima dall’angoscia della minaccia e solo la gogna la risarcisce dal senso di umiliazione e di impotenza.

La politica, come gestione efficiente delle cause e degli effetti dei processi migratori o come discussione pubblica delle soluzioni ai problemi comuni, non può entrare in questa "logica" subconscia, né può fronteggiarla senza emanciparsene, come per tutte le sindromi di panico da cui, esorcizzando il pericolo o eliminandone la causa apparente, non si esce, ma si finisce più implacabilmente imprigionati.

L’episodio di Colonia, rimandando a un tema ancestrale – quello dell’intimidazione e della violenza sessuale come esercizio di potere politico e dello stupro come suggello della conquista e della sovranità – è suonato come una conferma del carattere intimamente criminale di un fenomeno che pure susciterebbe un’istintiva pietà. I rifugiati non sono vittime, sono essi stessi carnefici. La solidarietà nei loro confronti è una forma di debolezza o di auto-inganno rispetto alla loro pretesa di dominio. E' una forma di tradimento dei nostri valori e della nostra libertà. La psicologia sociale spiega ampiamente questi fenomeni elementari e profondissimi di mobilitazione simbolica. Ma la forza dilagante di questi sentimenti – il loro carattere appunto egemonico – ha una spiegazione politica, che rimanda alla responsabilità delle élite politiche nazionali nell’Europa rinazionalizzata dalla paura. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili, perché il nostro è ancora florido e sicuro (certo, oggi, ancora il più sicuro dei mondi possibili), ma invecchiato e economicamente declinante. Questo impone problemi e cambiamenti necessari, che però abbisognano, come tutte le trasformazioni epocali, di un racconto che le giustifichi e ne spieghi il senso e l’opportunità.

L’immigrazione rivela la debolezza europea, ma non la cagiona. Questo è il racconto che oggi manca. E manca perché imporrebbe di rottamare tutti i feticci difensivi e di ripensare l’Europa come una potenza politica, capace di unità e azione globale e dunque necessariamente più integrata. L’unica leader che in Europa ha il coraggio di farlo – Angela Merkel – oggi forse non ne ha più la forza. L’unico grande governo europeo che oggi sarebbe in grado di seguirla – quello italiano – rappresenta il paese fondatore più culturalmente distonico da questa esigenza e più intrappolato nell’illusione nazionalista.

Servirebbe un’Europa seriamente imperialistica, anche dal punto di vista culturale, ne abbiamo una invece pateticamente campanilistica. La discussione sull’episodio di Colonia è da questo punto di vista paradigmatica, ma non dell’entità del pericolo straniero, bensì della cronicità dell’alienazione europea.