putin capodanno

Nella politica dei blocchi ritagliata sugli equilibri di Yalta, la partizione del mondo aveva un ordine drammatico, ma razionale. Da una parte, il Patto Atlantico raggruppava paesi esistenzialmente legati alla leadership americana e alla superiorità strategica di un modello economico efficiente e politicamente espansivo. Dall’altra, c’era il Patto di Varsavia, legato all’egemonia ideologica sovietica, alla declinante forza propulsiva della Rivoluzione d’ottobre, al “colonialismo rosso” (in Africa, Sudamerica, Medioriente…) e alla disperata ricerca di una superiorità militare che proprio l’inferiorità economica rendeva illusoria e suicida.

Quando, come usa dire, cadde il comunismo, l’Occidente non aveva solo respinto l’offensiva strategica e schiantato la resistenza del regime sovietico, ma aveva già conquistato il cuore della grande maggioranza degli uomini e delle donne che – in Russia e soprattutto nei paesi est europei - avevano vissuto la cattività imposta dal Cremlino come qualcosa di più intimo e umiliante di una mera dominazione politica.

Quanti allora ingenuamente decretarono la “fine della Storia” fotografavano, con un eccesso di enfasi profetica, il fenomeno reale rappresentato dalla generale conversione del campo nemico – governato, fino a poco tempo prima, dai niet di Mosca – alla cultura dello stato di diritto, del libero mercato e della democrazia rappresentativa e alla fiducia in un modello di sviluppo radicalmente alternativo a quello, ai tempi, patrocinato dall’Urss. A distanza di un quarto di secolo, il confronto tra l’Occidente e il sovietismo post-comunista del regime putiniano ripropone uno scenario analogo, ma a parti paradossalmente rovesciate. 

Mentre nel campo occidentale si moltiplicano divisioni, diffidenze e diserzioni ideologiche, malgrado una perdurante e soverchiante superiorità economica, la Russia - che rimane, a suo modo, una potenza internazionalista e surroga la vecchia ideologia comunista con un nazionalismo da esportazione altrettanto ostile all’esecrata “cultura americana” – sta conquistando inaspettati consensi nel campo formalmente nemico, nonostante la costituzionale debolezza di un modello politico-economico inesportabile e interamente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio.

Putin rappresenta a tutti gli effetti il riferimento (quando non il finanziatore) di tutte le opposizioni anti-europee dei paesi Ue e civetta allegramente anche con il candidato anti-sistema delle presidenziali americane, Donald Trump. Mosca non ha mai avuto tanti alleati – e così a buon mercato – nell’occidente europeo e negli Usa neppure ai tempi del Pcus. Perché un “satrapo energetico”, che governa un regime fondato sulla dittatura degli apparati di sicurezza e che continua a proporre una vera e propria alternativa antropologica al modello occidentale continua così brillantemente a spopolare nel cosiddetto mondo libero?

Il fatto che la globalizzazione economica – un prodotto economico culturalmente occidentale – abbia da tempo iniziato a mietere vittime anche in Occidente, basta a trasformare questo assoluto perdente dell’economia globale in una sorta di Robin Hood delle classi e delle nazioni decadute? Una lettura puramente economicista e non più profondamente culturale (e, dal nostro punto di vista, severamente “autobiografica”) del successo di questo campione dell’anticapitalismo 2.0 è davvero sufficiente? Si tratta, evidentemente di questioni complesse, ma decisive, anche perché Putin non ha alcuna intenzione di abbandonare la propria sfida egemonica.

Nel nuovo documento strategico sulla sicurezza nazionale il presidente russo ha aggiornato la dottrina di Mosca, individuando il vero nemico della Russia: siamo noi. Gli Stati Uniti, l’Occidente, la Nato, l’Europa “americana”. Ha perfettamente ragione. La Russia oggi è ideologicamente e strategicamente un'alternativa radicale al modello degli stati e delle democrazie liberali, rappresentato culturalmente dal “pensiero americano” e difeso militarmente dalla Nato.

Il nostro problema, invece, non è Putin, né questa Russia. Siamo, purtroppo, noi stessi, cioè quelli tra noi che eludono questo scontro e pensano che tutto si possa aggiustare non indisponendo troppo lo Zar del Cremlino, riconoscendogli qualche ragione o addirittura facendo tesoro – come fa Orban e vorrebbe fare Salvini o Le Pen ­– dei suoi insegnamenti. Putin si conferma la vera minaccia per la libertà europea, proprio perché è una minaccia non più esterna, ma interna e addirittura “interiore”.

@carmelopalma