Corbyn

Basterebbe vedere come ha celebrato la vittoria delle primarie del Labour, in un pub londinese, cantando “Red flag” con i suoi sostenitori, per comprendere l’iconografia di riferimento di Jeremy Corbyn, nuovo leader della sinistra – senza più alcuna parvenza di “centro” – britannica.

Corbyn è semplicemente lontano: lontano dagli altri candidati (Andy Burnham, Yvette Cooper, Liz Kendall) ideologicamente e nei risultati, visto il 59.5% ottenuto; lontano dal Labour degli ultimi anni, da quello blairiano che vinceva a quello sconfitto di Miliband; lontano, dicono i sondaggi, anche dai Conservatori di Cameron confermati al Governo lo scorso maggio con una maggioranza ben più ampia dello scorso quinquennio di coalizione; dunque lontano anche da Downing Street. Si devono essere sentiti i bicchieri tintinnare al quartier generale dei Tories, dopo il risultato delle primarie: molti, da quelle parti, si sentono già la riconferma in saccoccia nel 2020. Ma forse è proprio in questa lontananza la ragione del successo e la ragione per cui non si dovrebbe sottovalutare Corbyn.

Lo spostamento verso il centro della terza via lib-lab del nemico giurato Blair ha portato ad un appiattimento del Labour su posizioni neoliberali, nel solco – pur con le dovute diversità – del decennio thatcheriano. In quello stesso decennio Corbyn, dopo una carriera nel sindacato, viene eletto deputato a Westminster. Il collegio è quello di Islington, nel cuore di Londra. L’anno il 1983. E a rileggere il programma di Corbyn parrebbe che poco sia cambiato dalle idee del Labour sindacalizzato di quegli anni: stampare moneta à la Venezuelienne, tassare i ricchi per aumentare la spesa pubblica, università gratuite per tutti, disponibilità al dialogo con Hamas ed Hezbollah, taglio della spesa militare ed uscita dalla NATO, tanta devolution, nazionalizzazioni e “lotta all’austerity” ed una certa ambiguità sull’UE, questi i punti salienti.

“Populista”, lo bollano i disattenti giornalisti italiani, amanti della semplificazione terra-terra. Ma Corbyn non è populista. È popolare. È marxista, di quelli formatisi leggendo Gramsci e sentendo gli echi accademici, senza finire l’università ma con i libri sul comodino dopo il lavoro, con tanto attivismo, il volontariato in Giamaica e persino un’esperienza di lavoro in un porcile, in seguito alla quale diventerà vegetariano. Corbyn è uno di quelli che potrebbero girare nei quartieri brutti senza bisogno della scorta. Di quelli in bicicletta e con la giacca sgualcita. E se pure il suo programma terrorizza la Gran Bretagna benestante e conservatrice – la maggioranza – il personaggio, così diverso dagli ultimi leader e candidati, affascina ed eccita gli orfani di un Labour che per vincere ha fatto un patto con il diavolo e si è trasformato in quasi-centrodestra.

Rispolverata la bandiera rossa dalla soffitta, ecco che il nemico numero uno diventa non il coerente conservatore, antipodo naturale del Corbynismo, ma l’autore del patto: quel Blair che si sogna di eliminare con una purga staliniana pacifista e non-violenta, ma che aleggia imperturbabile, come D’Alema sul destino della sinistra italiana, sentenziando. Eccome, se sentenzia. Se le sono date di brutto, i due, durante la campagna elettorale. “La sua politica è come Alice nel Paese delle Meraviglie” lo dileggiava l’ex Primo Ministro. “Scegliete tutti ma non Corbyn” implorava. L’altro, implacabile, lanciava stoccate sulle politiche economiche e soprattutto sulla guerra in Iraq, sostenendo che Blair potrebbe essere giudicato per crimini di guerra dopo l’intervento a fianco di Bush nel 2003.

Anche Cameron non ci è andato leggero, twittando dopo l’elezione: “Il Partito Laburista è ora una minaccia alla sicurezza della nazione, dell’economia e delle famiglie”. Il terremoto vero, però, è avvenuto nelle prime file socialiste: Miliband (Ed) e le rivali Cooper e Kendall annunciano che non faranno parte del governo ombra di Corbyn mentre Reed, Reeves, Hunt e Reynolds si sono dimessi dai loro incarichi e sosteranno il partito in una posizione più defilata. Una situazione “renziana” nonostante l’abisso che separa il fiorentino e l’MP di Islington, simile a quando la Leopolda scatenava l’entusiasmo dei supporter ma non dei deputati. Ci sarà da vedere quanti saliranno sul carro (o sulla bicicletta) di Corbyn una volta che questo sarà partito alla volta delle prossime elezioni tra 5 anni. Perché se è vero che l’elettore indeciso è spaventato, quello laburista è sovraeccitato da questo leader così in linea con Tsipras (o Varoufakis?), Iglesias e un pochino pure Chavez, dai, piuttosto che con Prodi e Renzi (che probabilmente la maggior parte degli elettori laburisti non conoscono nemmeno).

È la rivincita di chi crede ancora nella lotta di classe, di chi ritiene che la povertà non si risolva con una maggiore libertà economica ma con una tassazione oppressiva, una lotta alla ricchezza e uno stato in versione chioccia spendacciona. Solo il tempo ci darà risposta sull’efficacia politica di questo radicale cambio di direzione del Labour. Il discorso sui princìpi perduti batterà la corazzata economica del duo Cameron-Osborne? Riuscirà Corbyn a rimanere coerente e lineare o si ammorbidirà verso il centro quando ci sarà da chiedere finanziamenti alla City per la campagna elettorale? Supererà l’ambiguità su questioni cruciali come la permanenza nell’UE e sul referendum scozzese che tanti seggi è costato ai socialisti, a favore del SNP? O è l’ennesimo segno che l’Europa si stia spostando verso posizioni più stataliste e sovraniste invece che verso un’integrazione e una maggior apertura dei mercati? Ci vediamo nel 2020.