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Nei primi anni duemila gli economisti, con il loro gergo, i numeri e i dati statistici, hanno portato a termine un vero e proprio take-over sulla comunicazione politica. I politici, che dovevano dar conto ai cittadini delle continue manovre finanziarie e dei vincoli finanziari europei, si erano dovuti adeguare. E all'epoca molti tecnici avevano pensato che il linguaggio politico, imbrigliato in un quadro concettuale più preciso e circoscritto, sarebbe stato finalmente meno fumoso e vago di quello della prima repubblica.

Ma dopo non molto tempo la politica aveva già imparato a piegare i concetti tecnici, a strumentalizzare dati e numeri a fini di consenso elettorale. Col tempo, l'uso dei termini tecnici si è fatto via via più disinvolto e spregiudicato, le statistiche sono state utilizzate sempre più di frequente in modo inappropriato ed eccessivo. Invece di farlo diventare più trasparente, i concetti economici, i numeri e i dati hanno reso il linguaggio politico inutilmente complicato. Agli occhi del cittadino, la linea di demarcazione tra chi parla con cognizione di causa e chi no, tra le informazioni credibili e quelle che non lo sono, si è fatta sempre più sfumata fino a sparire quasi del tutto.

Già una decina di anni fa, o poco più, un famoso disegnatore satirico profetizzò la completa degenerazione del sistema di comunicazione politica, pubblicando una vignetta con su scritto: in economia, sapere tutto o non capire un c***o non fa differenza.

Oggi, la comunicazione economica e politica nel nostro paese è diventata un vero fenomeno da baraccone. Spesso dà seriamente l'impressione di essere fuori controllo. Non bada più all'affidabilità o alla qualità delle informazioni economiche che ingerisce, se ne ubriaca e basta, come un avvinazzato. È diventata tossica, e alimenta la confusione. Lo spettacolo degli ultimi giorni, complice, probabilmente, anche questo caldo africano, ne è un esempio lampante.

Il tam-tam dei “grandi” centri studi nazionali, “allineati e coperti” sulle posizioni del governo (chissà per quanto ancora, però), è tornato a insistere su un (presunto) miglioramento delle prospettive economiche del paese. Le nuove previsioni di crescita parlano dello 0,7 per cento quest'anno, e di oltre l'1,5 per cento nel 2016. La ripartenza della produzione industriale viene data per imminente e scontata. Stime preliminari parlano di un +0,4 per cento mensile a luglio e di un +2,6 per cento rispetto a un anno fa. Presto avremo la conferma dal dato ufficiale. È il miraggio della “derivata prima”, altra manifestazione dello short-termism cronico della politica, che colpisce ancora e miete vittime eccellenti.

Infatti quasi tutti trascurano che, pur nell'ipotesi (irrealistica) in cui questo ritmo dovesse restare immutato a lungo, occorrerebbe circa un decennio per riportare l'indice ai massimi livelli di aprile 2008! Al Fondo monetario internazionale, che di recente ha calcolato in “venti anni” il tempo che ci serve per tornare ai livelli occupazionali del 2007, il nostro ministero dell'economia ha solo risposto che quei calcoli non considerano gli effetti propulsivi delle riforme strutturali promesse dal governo. Ma quali riforme, di preciso, non è ben chiaro.

Fino a poco tempo fa, il ministero del lavoro dispensava comunicati trionfalistici sugli straordinari effetti del jobs act, sbandierando dati di fonte INPS, pur sapendo benissimo (o forse no!?) che si tratta di numeri non idonei a dimostrare alcunché, e che gli effetti reali del provvedimento si potranno apprezzare soltanto in un arco temporale medio lungo e, soprattutto, guardando i dati ufficiali che pubblica l'ISTAT.

E proprio di recente, l'ISTAT e il nuovo rapporto Svimez sul mezzogiorno hanno rovesciato una vera doccia fredda sui miracoli del jobs act e sul racconto della “bella Italia che riparte”. Perché hanno mostrato che la disoccupazione aumenta ancora, soprattutto quella dei giovani, e che il mezzogiorno è messo peggio della Grecia. Ebbene, difronte a questi dati, la retorica e i media “di regime” hanno risposto che le presenze turistiche di giugno e luglio sono cresciute del trenta per cento rispetto all'anno scorso, e pare siano state le migliori degli ultimi dieci anni. Il tutto condito con notizie e immagini su week-end da “bollino rosso” in autostrada, come fossimo ancora negli anni '80 della Milano da bere.

Insomma, cos'è tutto questo se non una supercàzzola a più voci, un non-sense collettivo degno del conte Mascetti di “Amici miei”, film di cui, tra l'altro, ricorre il quarantennale. Ha ancora senso produrre analisi puntuali, precise e dettagliate, elaborare tabelle e grafici sofisticati per poi gettarli nel tritacarne di questa comunicazione politica che ormai prescinde dal rigore dell'analisi economica e statistica? Sto cominciando ad avere seri dubbi al riguardo. Questa commedia mi sta facendo perdere interesse per l'analisi congiunturale. E alimenta sempre più la mia curiosità per il surreale.

Quando ieri mi sono seduto al tavolino del bar, convinto di sembrare Arthur Laffer, anche io in attesa di quella ispirazione che a lui suggerì la “Curva di Laffer” e che a me avrebbe dovuto suggerire qualche “grafico serio” da mettere dentro questo pezzo che state leggendo, mi sono imbattuto nel frequentatore più assiduo del locale. Un autentico, simpatico “uomo della strada”, esperto soprattutto di calcio, campionati, formazioni, allenatori e commissari tecnici, ma informatissimo anche su tutto il resto, economia e politica incluse. Grande chiacchieratore da bar, di quelli a cui gli economisti hanno sempre riservato diffidenza, difronte al mio grafico sull'indice destagionalizzato della produzione industriale, ha commentato: “mi pare il rimbalzo di un pallone sgonfio”. Ed è vero. Il grafico della produzione industriale sembra proprio il rimbalzo di un pallone sgonfio. Basta guardarlo:

pallonesgonfio

Mi è parsa subito una immagine in grado di cogliere l'essenza della realtà, l'idea del quadro d'insieme, molto più di quanto avrebbe fatto una mia analisi pseudo-scientifica. Magari mi sarei soffermato troppo sui dettagli e avrei finito per essere forviante.

Un pallone sgonfio, cade sulla superficie del campo, fa un rimbalzo floscio e rimane a terra. Continua a rotolare per un po' prima di fermarsi, e poi rimane là, triste, ad aspettare che qualcuno si prenda cura di lui. È una immagine surreale, certo. Ma ce n'è una migliore per descrivere lo stato della produzione industriale nel nostro paese? In mezzo a questo circo che è diventata la comunicazione economica e politica, dove se ne sentono di cotte e di crude, non mi è parsa più un'eresia chiedermi: “che prospettive ha un'economia in cui l'indice della produzione industriale rimbalza come un pallone sgonfio?”.

La prospettiva offerta dalle riforme strutturali? Oppure quella delle più recenti promesse su uno storico taglio della pressione fiscale? 50 miliardi di euro in meno di tasse potrebbero indubbiamente fare la differenza. Però per funzionare dovrebbero essere coperti da tagli di spesa corrente, strutturali e permanenti. Ci sono molte analisi al riguardo. Ma anche su questo preferisco immaginare la risposta surreale dell'amico incontrato al bar. Lui potrà non essere forte in macro economia o in finanza pubblica (del resto nemmeno io lo sono più di tanto), ma ha un passato orgoglioso di coriaceo calciatore in terza categoria. Mi direbbe subito che promettere tagli di tasse senza avere ben chiaro dove si vanno a pigliare i soldi per coprirli, è come calciare il pallone con una gamba sola. Mi direbbe che quando si calcia con una gamba, l'altra deve essere ben salda e piazzata al suolo. Altrimenti il più delle volte, dopo aver lisciato il pallone, si finisce col culo per terra. E avrebbe ragione da vendere.