Grecia elezioni

Gli ultimi avvenimenti della crisi greca sembrano infine preludere a un accordo, che non sembra però affrontare in via definitiva il nodo irrisolto della moneta europea, che probabilmente tornerà a generare tensioni. 

Parafrasando la canzone dei CCCP, quella dell’euro “è una questione di sovranità”, destinata a manifestarsi puntuale ogni volta che uno dei paesi aderenti attraversi una crisi tale da rischiare il default. In tali eventualità, o a cedere sovranità sono i paesi nei guai, sottoposti a un sostanziale commissariamento da parte dei paesi forti che gli prestano denaro, o a farlo sono i paesi più solidi e produttivi, che regalano risorse proprie a quelli in difficoltà per salvarli.

Entrambe queste soluzioni tendono a generare reazioni interne di opposizione politica sia nei paesi commissariati che in quelli espropriati, tali da renderle impraticabili. I cittadini dei primi si ribelleranno all’idea che le politiche nazionali siano dettate da altri paesi, e non decise dal governo eletto per via democratica. I cittadini dei secondi troveranno legittimamente inaccettabile che i loro soldi vengano ceduti ad altri stati e utilizzati da questi discrezionalmente.

La moneta europea è stata subordinata, fin dai suoi trattati istitutivi, ad una condizione implicita: l'impossibilità del fallimento dei paesi aderenti. Si tratta con tutta evidenza di un vincolo politico, che risponde all’esigenza di preservare da un lato la sovranità fiscale di ciascun paese, ed evitare dall’altro che la bancarotta di uno di essi metta a rischio la tenuta dell’area valutaria comune nel suo complesso. Il fallimento di uno stato che non dispone della propria sovranità monetaria - come si è visto in questi giorni in Grecia - comporta il blocco di tutti i pagamenti interni, e la fine immediata della sua economia, con gravissime conseguenze sociali e il rischio di un dissesto istituzionale irreparabile. A quel punto si pone inevitabilmente la questione del suo salvataggio da parte degli altri stati membri dell’euro, oppure del suo ritorno ad una moneta nazionale, con cui riattivare le transazioni (per quanto di scarso valore, data la svalutazione immediata del nuovo corso).

La bancarotta di un paese dell’euro tende dunque ad innescare due processi obbligati ed automatici alternativi. La scelta del salvataggio, infatti, consiste già in un’infrazione della sovranità fiscale, perché risorse di alcuni paesi vengono messe a disposizione di un altro governo per i suoi affari interni. Per contro, l’uscita dall’euro di un paese può generare un contagio della crisi ad altri paesi fortemente indebitati, perché rappresenta un’evidenza che non saranno mai salvati dagli altri "inquilini" dell’euro. Tale informazione può incentivare gli investitori a liberarsi di titoli sovrani fino a quel momento considerati buoni perché coperti dalla garanzia implicita dei paesi forti dell’euro, spingendo gli emittenti verso il baratro.

Per evitare questi due scenari, finora si sono seguite soluzioni diplomatiche temporanee, subordinando, prestiti a piani di consolidamento fiscale e risanamento economico, come nel caso greco. Ma si tratta, come si è visto, di compromessi più finalizzati a fare in modo che i governi coinvolti non perdano la faccia di fronte ai loro elettori, che ad affrontare i problemi veri. D’altronde, sono stati messi a punto meccanismi come l’Esm o le Omt della Bce, finalizzati a prevenire il rischio di una dissoluzione dell’eurozona, preservando le sovranità nazionali. Ma si tratta di meccanismi la cui reale efficacia è da verificare.

Al di là di accordi di facciata come quello che si sta raggiungendo in queste ore per evitare il default greco, la storia dell’euro non potrà che concludersi in due modi: o si realizzerà un’unione fiscale, ed eventualmente politica, in cui il trasferimento di risorse da un'area a un'altra è legittimato politicamente, oppure ci sarà un "liberi tutti" per gli stati europei.