Accordo sì o no, euro o neo dracma, Unione Europea dentro o fuori. Qualunque sia lo scenario che aspetta la Grecia nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, dalle parti del Partenone ci sarà il problema di sempre: capire di che far vivere un’economia davvero poco competitiva.

Negli ultimi anni, nonostante una significativa “svalutazione interna” (cioè, un abbassamento del livello dei salari), la Grecia non ha sperimentato alcun miglioramento significativo nella sua capacità di esportare, né di attrarre investimenti diretti esteri. Mentre il costo del lavoro andava riducendosi, aumentava ad esempio il costo dell’energia (anche in virtù delle maggiori accise imposte per far quadrare i conti) e soprattutto continuavano a mancare le condizioni generali per fare business e investire in Grecia. Come poi segnalato da Michale Haliassos della Goethe University di Francoforte, un effetto significativo della moderazione salariale è stata l’emigrazione dei lavoratori greci più qualificati, giovani ma non solo.

Dalla metà degli anni Novanta fino alla Grande Recessione del 2008-2009, la Grecia si è illusa di essere diventata un paese del primo mondo. Il reddito pro capite cresceva e la domanda interna prosperava, ma tutto grazie ad un debito pubblico in rapido aumento. Giunti al livello di insostenibilità, la corsa è finita e i guai sono esplosi. Come segnala oggi Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, dal 2010 in poi Atene ha ricevuto un ammontare di aiuti finanziari dall’Unione Europea, dai singoli paesi membri, dalla BCE e dal Fmi (dalla troika, si usava dire) molto maggiori di quanto abbia dovuto pagare in interessi sul suo debito.  

Di fatto, quindi, gli aiuti dall’esterno hanno in parte compensato l’accumulazione di debito pubblico del passato, lasciando che a far più o meno quadrare i conti annuali in cerca del famigerato avanzo primario ci pensassero gli aumenti delle tasse e le riduzioni delle spese. Ma la semplice sostituzione dei creditori privati (titolari di titoli di stato) con i creditori pubblici non salva un paese dal suo destino. Anzi, se nel frattempo una popolazione abituata a vivere di massiccia spesa pubblica viene privata del suo ossigeno, la domanda interna si comprime. E il turismo? Vale tra il 15 e il 18 per cento del Pil greco, una enormità, ma se pure crescesse di un terzo o di uno straordinario 50 per cento, non restituirebbe alla Grecia quel che la droga del debito pubblico le ha dato per decenni. La tragedia è assicurata, salvataggio o non salvataggio, euro o non euro.

Secondo uno studio di Uwo Bower e altri (Economic Papers. No. 518) del giugno 2014, le esportazioni greche sono di almeno un terzo inferiori a quelle che sarebbero fisiologiche per un paese delle dimensioni, delle caratteristiche geografiche e della localizzazione rispetto ad altri mercati della Grecia. E’ un fenomeno, secondo gli autori, che persiste da decenni, su cui negli ultimi anni ci sono stati avanzamenti importanti, ma che resta una zavorra determinante per capire il dramma ellenico. Possiamo prendercela con il lassismo mediterraneo o con la rigidità teutonica, possiamo invocare un’Europa più solidale o parlare di responsabilità nazionale, ma nessuna società può vivere se non produce, crea, vende. Se non compete sui mercati globali, insomma.