Europa e Scozia: David Cameron si schiera per il "diritto di decidere" e, così facendo, da un lato fa onore alla storia ed alla civiltà democratica britannica, dall'altra opera uno "strappo" rispetto al tradizionale costituzionalismo europeo ed ai suoi principali assunti – l'immodificabilità dei confini e l'irreversibilità delle appartenenze: devono durare solo quelle unioni che "funzionano".

Cameron

Il Partito Conservatore di David Cameron, andando ben oltre le attese della vigilia, ha ottenuto la maggioranza politica alle elezioni di giovedì scorso per il rinnovo della Camera dei Comuni. Ci sono buone ragioni per ritenere che il driver principale della vittoria dei Tory sia il successo delle politiche economiche di stampo liberale messe in atto negli ultimi cinque anni che hanno riconfermato il Regno Unito come una delle piazze economiche più dinamiche a livello mondiale.

Nei fatti in Gran Bretagna le cose stanno andando piuttosto bene. L'economia del paese è quella che recentemente è cresciuta di più tra quelle del G7 e la disoccupazione è scesa a poco più del 5%, al punto che Cameron, in campagna elettorale, ha potuto rivendicare che il Regno Unito negli ultimi quattro anni ha saputo creare più posti di lavoro di tutto il resto d'Europa messo insieme. In queste condizioni gli elettori hanno preferito conferire al premier un nuovo, ancor più forte, mandato piuttosto che rischiare la svolta a sinistra proposta dai laburisti di Ed Milliband.

In ogni caso, al di là delle tematiche economiche, determinanti ai fini della dinamica politica interna, la maggioranza assoluta al Partito Conservatore pone sul tavolo altre due questioni, in grado potenzialmente di propagare le proprie conseguenze ben al di là dei confini britannici.

David Cameron si è impegnato a tenere, probabilmente nel 2017, un referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell'Unione Europea. Di qui ad allora proverà a negoziare con Bruxelles i termini di un'Unione più flessibile – in linea con la visione che ha espresso due anni fa nel "discorso sull'Europa". In ogni caso, sia che riesca ad ottenere le riforme a cui punta, sia che la trattiva con Bruxelles fallisca, David Cameron lascerà agli elettori il diritto ultimo di valutare se il Regno Unito debba o meno restare a fare parte dell'Unione Europea.

Un eventuale "Brexit" avrebbe effetti importanti. In primo luogo creerebbe un "precedente" sulle modalità, anche tecniche, di gestione della fuoriuscita dall'Unione di uno Stato membro. In secondo luogo, in virtù della forza e del dinamismo dell'economia britannica, rappresenterebbe, con tutta probabilità un "precedente di successo", contrariamente allo scenario disastroso al quale assisteremmo nel caso di fuoriuscita della Grecia o di un altro paese dell'Europa mediterranea. In tal senso, la fuoriuscita della Gran Bretagna potrebbe aprire la strada ad una dissoluzione "da Nord" dell'Europa politica, incoraggiando il sentimento euroscettico in paesi come la Germania, l'Olanda o la Finlandia.

Tra l'altro, il venir meno dei contributi britannici al bilancio UE e l'inevitabile sbilanciamento vero Sud degli equilibri comunitari, accrescerebbe la pressione su Berlino. La Germania rischierebbe di essere soverchiata dalla forza del blocco mediterraneo, portatore di politiche di spesa, centralizzazione del rischio ed inflazione monetaria e quindi potrebbe decidere in via ultimativa di chiamarsi fuori dall'unione politica o per lo meno dall'unione monetaria, con conseguenze evidentemente esiziali sul progetto di Unione Europa, così come è stato concepito negli ultimi due decenni. Insomma, gli equilibri continentali non potranno minimamente essere indifferenti all'esito del referendum britannico.

Il secondo grande fronte è quello della Scozia. Per certi versi quello emerso dalle urne è il risultato perfetto per i nazionalisti scozzesi. Il partito di Nicola Sturgeon ottiene la quasi totalità dei seggi in Scozia (56 su 59), ma nessun potere a livello di governo britannico. Non si è verificata la situazione che molti si attendevano, cioè che lo SNP risultasse l'ago della bilancia in un hung parliament. In quel caso, difficilmente i nazionalisti avrebbero potuto esimersi da una coalizione con Ed Milliband, o almeno da un appoggio esterno al suo governo, perché non avrebbero potuto giustificare con i propri elettori di non aver fatto il possibile per impedire un nuovo governo dell'odiato Cameron.

Certo, se lo SNP fosse un partito prevalentemente interessato a muoversi secondo logiche di sindacalismo territoriale – come è il caso della maggior parte degli "autonomismi" italiani – la prospettiva di poter "condizionare" un governo Milliband sarebbe stata particolarmente interessante. Ma lo SNP è un partito sinceramente indipendentista che, se deve scegliere tra trasferimenti assistenziali e piena sovranità, preferisce la seconda. In quest'ottica la vittoria di Cameron consente alla Sturgeon di radicalizzare i termini del confronto e dello scontro con il governo centrale e di presentare al proprio elettorato la questione in termini chiari: Londra è il nemico e la politica britannica non è in alcun modo riformabile dall'interno.

In queste condizioni l'ipotesi di un nuovo referendum per l'indipendenza della Scozia in tempi brevi non è più "fantapolitica"; anzi molti osservatori ritengono che Nicola Sturgeon potrebbe metterlo al primo punto del suo programma per le elezioni del parlamento scozzese nel 2017, e stavolta il risultato avrebbe buone probabilità di essere diverso, in virtù della divaricazione sempre maggiore tra la politica inglese e quella scozzese. Non solo il 55% degli elettori inglesi hanno votato per partiti "di destra", mentre il 77% degli elettori scozzesi hanno votato per partiti "di sinistra", ma anche e soprattutto l'elettorato scozzese ha rigettato in massa il sistema partitico britannico.

Peraltro in caso di vittoria euroscettica al referendum sull'UE, il sì all'indipendenza della Scozia sarebbe ulteriormente favorito, dato il tradizionale orientamento europeista degli scozzesi che potrebbero scegliere di lasciare il Regno Unito per restare in Europa. Come nel caso del "Brexit", anche l'indipendenza della Scozia segnerebbe un precedente sul piano istituzionale con cui il resto dell'Europa non potrebbe fare a meno di confrontarsi.

Negli ultimi anni l'immagine che di David Cameron è arrivata nei circuiti politici, mediatici ed intellettuali degli altri paesi è quella di un politico relativamente liberale in economia, abbastanza rigoroso sui temi dell'ordine e dell'immigrazione e piuttosto aperto sulla questione delle libertà civili – con particolare riferimento all'introduzione in Inghilterra dei matrimoni gay. Fino a questo momento, invece, non è stata riservata sufficiente attenzione alle innovazioni dell'era Cameron sul piano costituzionale ed istituzionale. Eppure la concessione del referendum per l'indipendenza della Scozia del 2014 e la prossima indizione del referendum per l'uscita dall'UE sono le due facce di una nuova visione del rapporto tra Stato, comunità e cittadini.

David Cameron si schiera per il "diritto di decidere" e, così facendo, da un lato fa onore alla storia ed alla civiltà democratica britannica, dall'altra opera uno "strappo" rispetto al tradizionale costituzionalismo europeo ed ai suoi principali assunti – l'immodificabilità dei confini e l'irreversibilità delle appartenenze. Il Regno Unito e l'Unione Europea non sono "per sempre", anzi sono soggetti ad una continua "verifica" da parte dei depositari ultimi della sovranità, cioè gli elettori. E', se vogliamo, il concetto di Ernest Renan di nazione come "plebiscito permanente". Il tipo di Europa che scaturisce dalle "rotture" cameroniane non tollera poteri ineluttabili e richiede che gli Stati e le entità sovranazionali siano continuamente legittimati nelle loro prerogative dal consenso dei cittadini. Devono durare solo quelle unioni che "funzionano".

Per certi versi è significativo come dei passaggi politici così dirompenti siano presieduti da un governo "tranquillo", ben lontano da qualsiasi suggestione populista ed estremista. Per cambiare le cose non serve alzare i toni, non servono slogan reboanti; è sufficiente la determinazione a rispettare gli impegni presi davanti all'elettorato. Sembra che David Cameron abbia questa dote e non è escluso che tra dieci o vent'anni si potrà parlare di una "rivoluzione cameroniana" come di uno snodo politico paragonabile alla "rivoluzione thatcheriana" o "reaganiana" degli anni '80.