In principio fu la teoria dei giochi. All'indomani delle elezioni vinte da Syriza in gennaio, complice il fatto che il pittoresco ministro dell'economia, Yanis Varoufakis, è esperto della materia, un numero consistente di commentatori prese ad interpretare il comportamento da subito apparso indecifrabile del governo greco, in particolare per ciò che riguardava il rapporto con le istituzioni europee, come se dietro ad esso si celasse una scaltrissima quanto misteriosa strategia negoziale.

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Frances Coppola, analista solitamente accorta, si spinse persino ad osservarvi l'applicazione deliberata della cosiddetta "coercive deficiency", nota in un passato lontano principalmente agli studiosi di deterrenza nucleare, secondo la quale un attore già debole - qui la Grecia impossibilitata a finanziarsi sul mercato dei capitali - in certe situazioni avrebbe interesse ad indebolirsi ulteriormente, a spingersi volontariamente più vicino al bordo del precipizio, per segnalare alla controparte di non avere più nulla da perdere, e rendere così più credibile la minaccia di un gesto estremo: ricorrere all'arma atomica o, nel nostro caso, quello che alcuni considerano il suo equivalente economico-finanziario, guidare il paese fuori dall'unione monetaria e mettere così a rischio, almeno nelle intenzioni, la stabilità dell'intero continente.

Nei mesi trascorsi dal quel vittorioso giorno d'inverno, tuttavia, l'entusiasmo è andato rapidamente scemando e della iniziale fascinazione che catturò la fantasia di molti resta ormai ben poco. Accantonate le improbabili analogie con la guerra fredda, oggi il consensus internazionale tende a riconoscere la natura asimmetrica del pericolo greco: puntare addosso a qualcuno un'arma che in primo luogo e con maggiore violenza colpirebbe proprio chi la impugna non pare più la grande idea di un tempo, nè adoperarsi in ogni modo per fare sgarbo - anche in modo grottesco e risibile, come per la richiesta di riparazioni di guerra alla Germania - ai partner con cui si sta faticosamente negoziando. Sullo sfondo di una congiuntura interna che è tornata a deteriorarsi in modo significativo - il 2015, contro le attese di pochi mesi fa, sarà l'ennesimo anno di recessione - come già allora era purtroppo facile sospettare, l'accordo preliminare del 20 febbraio resta tutto da inventare e da riempire di contenuti concreti.

Nel frattempo, i sondaggi continuano ad indicare una società attraversata da insanabili incoerenze: per la prima volta vi è un indebolimento della fiducia nel governo in carica, probabile conseguenza degli spasmi finanziari e delle rinnovate tensioni bancarie e pressioni sui depositi. D'altra parte, l'appetito per riforme supply-side di un qualche respiro (quelle che davvero servirebbero) resta generalmente scarso, mentre la popolarità della moneta unica rimane invece alta (più alta che in Italia, ad esempio), e la maggioranza dei cittadini seguita a dirsi fermamente in favore della permanenza del paese all'interno dell'eurosistema. Se possibile, oggi è ancora più difficile di due mesi fa trovare ragioni per essere ottimisti.

Per molti versi, il prolungato stallo in cui è caduta la questione ellenica si origina nella promessa impossibile della campagna elettorale di Tsipras, il quale, sostenendo di voler cancellare la gran parte degli accordi e delle riforme sottoscritte dai suoi predecessori, senza però mettere in discussione l'appartenenza all'Unione Europea e, soprattutto, all'area monetaria, si è praticamente cacciato da solo ab initio nel vicolo cieco da cui ora fatica ad uscire, dove ora sembra intrappolato. Prendere il potere, in altre parole, può essere molto più facile che saperlo (o poterlo) poi esercitare.

E ciò non riguarda solamente le aspettative dell'elettorato, ma, ovviamente, anche la composizione della compagine governativa e della maggioranza parlamentare, dove siedono, controllando numeri determinanti, personaggi che rendono arduo assumere una posizione più "centrista" e conciliante verso le richieste che provengono da Washington, Bruxelles e Francoforte, rinnegare anche solo in parte le mirabolanti proposte elettorali e prodursi in quella che in greco è nota col nome di "kolotoumba", un repentino ripensamento, una mossa acrobatica che cambi la direzione di marcia e marginalizzi la sinistra intransigente e meno incline al compromesso ("Hold together a fragile coalition in a country where there is no real consensus supporting anything", ha scritto Dan Davies).

La vulgata vuole che Tsipras sia in fondo un politico pragmatico. Non così, però, Panayotis Lafazanis, ministro dell'energia e dell'ambiente, per decenni membro del partito comunista greco di ispirazione stalinista, avverso non solo ad un accordo con l'UE, ma anche alla moneta unica; o Nikos Voutsis, ministro dell'interno che ha presto cercato di allentare o cancellare riforme operate dal governo Samaras, legate alla valutazione ed alla selezione del personale nel pubblico impiego; o, ancora, Aristides Baltas, ministro dell'istruzione, già impegnato a mettere mano a improbabili contro-riforme dell'università (figure, queste, che il Financial Times, proprio ad indicarne la rilevanza, ha di recente indagato con insolita dovizia di dettaglio).

E' evidente che se queste sono le promesse e tale è il groviglio politico, possiamo aspettarci di dover convivere con l'incertezza che promana da Atene ancora a lungo, anche perché quello cui abbiamo assistito in Grecia è una sorta di generalizzata "coordination failure", tipica dei paesi ad uno stadio più primitivo di sviluppo, ad un collasso delle istituzioni e della società con pochi precedenti per un paese occidentale, tanto da spingere alcuni, come l'economista e senatore belga Lode Vereeck, a parlare apertamente di "failed state". Anche assumendo condizioni complessive e fiducia reciproca molto migliori di quelle date, non sarebbe scontato il successo di un'opera di ricostruzione così profonda.

Dal punto di vista degli altri paesi europei - dal nostro punto di vista, quindi -, traspare ormai una dose cospicua di frustrazione, come è naturale che sia. Eppure, qualcosa ancora impedisce di tagliare l'esile filo che tiene la Grecia appesa all'Europa: nonostante, grazie soprattutto all'azione della Bce, si guardi con molta minore apprensione alla possibilità di un contagio finanziario, ed anzi si cominci a credere che recidere il bubbone greco potrebbe al contrario rafforzare l'Unione, non tutti sono completamente persuasi, e le pressioni che provengono da oltre Atlantico - dove, a torto o a ragione, il fantasma di Lehman Brothers non ha cessato di aleggiare nelle stanze di Washington e Wall Street -, per una soluzione accomodante sono forti.

La persistenza di tale esitazione è stata finora la fortuna di Tsipras, che ha potuto non già fare la voce grossa, ma prendere tempo sì ed a più riprese fare finta di cooperare. Tuttavia, in mancanza di rapide schiarite nel cielo della politica ateniese - che pur potrebbero arrivare sotto forma di referendum o nuove elezioni, cioè di una consultazione popolare che fornisca una volta per tutte un'indicazione chiara, o dentro o fuori, con relativa assunzione di responsabilità - i segnali di impazienza si stanno rapidamente accumulando, e presto di quel pur forse ragionevole dubbio potrebbe restare ben poco.