Il futuro del sistema bancario italiano non verrà scritto in ottobre quando 15 istituti di credito dovranno superare l’esame di maturità previsto da EBA e BCE con l’Asset Quality Review, che pure resta un crash test importante. Tantomeno uscirà dall’accesa discussione con il sindacato sull’entità degli esuberi e le modalità di riqualificazione dei circa 30.000 bancari superstiti. Il futuro si disegna oggi nei piani industriali del prossimo quinquennio, nella ricerca di una nuova identità dopo gli anni terribili della crisi e del credit-crunch.

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Il futuro di un intero settore si gioca sulla capacità di tornare a fare da cinghia di trasmissione all’economia reale, come lo stesso governatore canadese della Bank of England, Mark Carney, ha detto recentemente: “Banking is fundamentally about intermediation -connecting borrowers and savers in the real economy.” La sfida industriale della finanza bancaria italiana passa oggi per la digestione di una massa terrificante di crediti deteriorati (quasi 260 miliardi tra sofferenze e incagli) e per le modalità con cui verrà ripreso il rapporto con oltre un milione di piccoli imprenditori e qualche decina di migliaia di medie imprese.

Quei 160 miliardi di sofferenze sono oramai macerie, destinate per lo più alle procedure legali e fallimentari, alle società di recupero che stanno crescendo e moltiplicandosi -come testimonia l’ultimo rapporto di UNIREC, l’associazione di categoria- pur mostrando minore successo nel recupero dei crediti bruciati dalla crisi (solo il 4% per i crediti finanziari). Oppure finiranno impacchettate in qualche veicolo speciale costituito da fondi esteri pronti a lucrare con pazienza pluriennale ottimi differenziali sul bisogno delle banche di disfarsi di un ingombrante fardello che rovina i bilanci. Ben più impegnativa si presenta la gestione di 100 miliardi di posizioni ‘ad incaglio’ che fluttuano con una previsione di perdita di ‘solo’ il 20-25% e potranno nei prossimi dodici mesi diventare altri spiacevoli sofferenze, oppure ritornare a una vita normale fatta di rimborsi puntuali.

Un campo di gioco accidentato, nel quale mosse avventate possono fare precipitare la situazione e mosse tardive lasciano spazi invitanti a imprenditori e professionisti con pochi scrupoli per esercitarsi nell’arte del concordato con riserva, che nel bene (concordato ammesso) e nel male (concordato respinto) possono solo provocare ingenti danni proprio alle banche. Decine di migliaia di imprese a rischio estinzione nelle mani di uno sparuto gruppo di bancari specializzati nelle crisi e nelle ristrutturazioni, solo recentemente rafforzati da progetti organizzativi in alcune delle maggiori banche.

Dimenticandosi di questo plotone di sventurati, la capacità di ‘fare banca’ si concentrerà sulle altre imprese, alcune in ottima salute nonostante crisi e recessione, la maggior parte danneggiate nei volumi di fatturato, nei margini operativi e appesantite da troppo debito bancario. Proprio i piani industriali delle banche e le presentazioni di offerte in inglese a analisti e investitori rivelano una preoccupante tendenza alla semplificazione nell’isolare le imprese ‘che ce la fanno’, dalle altre a cui le banche attribuiscono -spesso con lo spietato meccanicismo del rating- una patente negativa che incoraggia l’abbandono graduale o frettoloso. È proprio questo atteggiamento manicheo che deve preoccupare maggiormente, nell’epoca in cui le leve del successo sono sempre più sfumate, sempre meno dipendenti da mattoni e macchinari, rispetto a competenze e ingegno, alla capacità di inglobare innovazione nei prodotti e nei servizi, all’abilità nello sfruttare community e piattaforme informatiche senza confini geografici.

Come già in passato, la prima a partire è stata Unicredit che dopo avere separato il buono (portafoglio core) dal cattivo (portafoglio non-core) nella sua prima trimestrale del 2014 mostra con orgoglio i risultati di crescita, seppure modesta, sul primo e il calo degli impieghi sul secondo. Altre banche, come Banco Popolare e UBI, orgogliosamente mostrano come le nuove erogazioni di credito siano andate per il 92% solo ai migliori rating.

Facile comprendere come a quel 30-40% di imprese, che allo sportello del credito ha avuto un misero 8% dei finanziamenti concessi, possano non tornare i conti della liquidità necessaria. Alle grandi banche seguiranno le medie e l’intero sistema imprese Italia sarà presto diviso in due gruppi: buoni e cattivi, magri e grassi.

Purtroppo per le banche -e per le imprese magre- il mondo economico non è così semplice e non è per nulla scontato che le banche sappiano discriminare il rischio con l’abilità e gli strumenti necessari. Anzi, vi sono ottime ragioni espresse dall’interno dello stesso sistema bancario per dubitare che le reti bancarie sappiano leggere nel presente e nel futuro delle imprese, un mestiere che richiede addestramento, nuove tecnologie insieme a una notevole dose di passione e esperienza. Un mestiere che gli esperti ritengono di fattura ‘artigiana’ e come tale sacrificato negli ultimi dieci anni sull’altare dei CRM, delle campagne commerciali, dei prodotti standardizzati e ora della separazione silenziosa tra bianchi e neri.

Sono le sfumature, assenti nelle note integrative dei bilanci che faranno la differenza, sfumature di grigio, dimensioni e rilievi che si apprezzano al tatto, non con la vista automatica delle gradazioni di rating che nella crisi non hanno affatto protetto le banche. La spinta alla semplificazione nei processi commerciali, nella distribuzione del credito può giocare brutti scherzi alle grandi e medie banche e favorire le piccole che si nutrono più di notizie (locali) e opinioni che di modelli statistici validati, compensando i limiti della dimensione.

Fare banca e dare credito alle imprese resta un lavoro difficile; se, come si dice, le banche hanno perso contatto e sensibilità nella lettura del rischio occorreranno anni di addestramento in palestra e sul campo per riprendere professionalità. Nel frattempo il rischio di processi sommari e sentenze ingiustificate rimane elevato.

Altrettanto difficile si presenta la ricostruzione del coraggio nelle filiali dopo sei anni di crisi e perdite su crediti, per fare sì che opinioni (dei bancari) e prospettive (delle imprese) possano sopravanzare il rispetto cieco delle circolari, il timore diffuso di sbagliare e subire processi interni, paure che spiegano il numero di richieste declinate sul nascere rilevato dalle stesse indagini della BCE (cfr. ECB-SURVEY ON THE ACCESS TO FINANCE OF SMALL AND MEDIUM-SIZED ENTERPRISES IN THE EURO AREA, April 2014 pag.14)

Come se ne esce con una goccia di indispensabile ottimismo? Probabilmente con l’aiuto di forze esterne al sistema bancario. La prima è la tecnologia, se questa sarà indirizzata a fornire al personale dati intelligenti e saggiamente incrociati per valutare meglio i piani delle imprese e la loro capacità di resistenza all’interno di complesse filiere di supply chain. Un modello auspicato nella visione dell’intervento del prof. Carnevale-Maffè sul Sole 24 Ore il 14 maggio . La seconda è già intuibile nella ferma volontà di Mario Draghi e della BCE di riattivare la cinghia di trasmissione del credito all’economia che presto condurrà a forme di ‘formal suasion’ per concedere liquidità solo alle banche che finanziano le PMI. Una probabile nuova gettata di LTRO subordinata ad impegni sul portafoglio crediti è in vista, simile a schemi già sperimentati dalla Bank of England con il Funding for Lending Scheme (non sempre con l’esito sperato).

La terza forza potrebbe essere ancora più esterna al sistema: la competizione dei ‘barbari’ già alle porte. Nomi noti come Amazon (con il progetto B2B Amazon Supply ), Google o la stessa Facebook-Bank, i ricchi fondi hedge a caccia di rendimenti e occasioni, le piattaforme B2B internet, tutti insieme costituiscono una seria minaccia al business tradizionale a cui le banche dovranno reagire velocemente.

Dalla fotografia dei clienti in bianco e nero ai mille colori e sfumature il passo non è breve, ma neppure impossibile.