La prima dichiarazione del neo ministro dell’agricoltura Maurizio Martina a proposito di Ogm è stata di netta contrarietà, e questo non dovrebbe meravigliare. Matteo Renzi ha bisogno di tutto fuorché di una polemica che potrebbe incrinare la straordinaria popolarità con la quale il suo esecutivo veleggia verso le elezioni europee, ed opporsi al biotech procura facile consenso: si assecondano i pregiudizi della maggioranza degli italiani, quelli che con l’agricoltura non hanno più nulla a che fare da generazioni, e dell’agricoltura conservano un’idea che si adatta più alle illustrazioni dei libri per bambini che alla realtà.

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Dall’altra parte chi riceve un danno materiale immediato, sebbene consistente, dal bando agli Ogm, rappresenta una minoranza: gli agricoltori, che in termini di PIL prodotto non rappresentano certo una massa critica devastante, e chi fa ricerca nel campo delle biotecnologie, che da tempo si è rassegnato a trasferire all’estero il proprio bagaglio di competenze. Pazienza, quindi, se chi coltiva mais nel nostro paese ha visto accumularsi in vent'anni, lo abbiamo spiegato dati alla mano nello scorso numero di Strade, un gap di produttività impressionante rispetto ai nostri concorrenti: tra il 13 e il 25%.

L’idea che l’Italia, come sostiene il ministro, non abbia bisogno di Ogm è arrogante, oltre che smentita dalla realtà. Arrogante perché attribuisce al regolatore pubblico l'arbitrio di interferire sulle scelte di chi opera sul mercato a proprio rischio e pericolo: se gli agricoltori italiani non avessero bisogno di Ogm non ci sarebbe nessun bisogno di esporsi alle procedure di infrazione europee per vietarli, e basterebbe la loro libera scelta a metterli fuori gioco. Smentita dalla realtà perché è proprio il modello-di-agricoltura-italiano-fondato-su-qualità-e-tradizione, quello di cui tutti i ministri dell’agricoltura da vent’anni a questa parte si sono riempiti la bocca, a chiedere la libertà di poter seminare quel mais che invece i mangimifici italiani sono costretti ad importare, perché più sano. E ad utilizzare per nutrire quelle vacche e quei maiali con i quali produciamo la parte largamente maggioritaria delle nostre denominazioni d’origine.

Diverso il discorso sulla ricerca, per la quale il ministro sembra avere una sensibilità che forse non è stata colta dal suo intervistatore. Martina sostiene che bisogna sviluppare la ricerca pubblica, per competere e togliere spazio alle multinazionali. E’ vero, ma per farlo non c’è che una strada: rimuovere il bando alla sperimentazione in campo aperto (noi possiamo fare ricerca solo in laboratorio - un po’ come se dovessimo realizzare motori senza provarli su strada). Muoversi in questa direzione sarebbe un’iniziativa coraggiosa e meritoria.

Ps. Il ministro sostiene che bisognerebbe ridurre l’uso della chimica in agricoltura, e di impegnarsi a trovare delle strade per farlo. Il confronto dei dati sulla quantità di pesticidi che vengono usati sugli Ogm e sulle varietà convenzionali potrebbe suggerirgli qualche idea.

Pps. Mi piacerebbe che ci si ricordasse che l’Expo non è una sagra di paese o, come si usa dire oggi, “la vetrina del Made in Italy”. Il provincialismo è una delle malattie croniche dell’agroalimentare italiano; cominciare a venirne fuori, anche soltanto a livello di comunicazione, sarebbe già un bel passo avanti.