stradedelcibo-quadratoE' battaglia di infografiche, tra Italia e Stati Uniti. Pochi giorni fa il duro attacco del New York Times all'olio nostrano, oggi la replica del Consorzio Olio DOP Chianti Classico. Sul piano dell'efficacia, però, è un contrattacco necessario ma non sufficiente. Quella presentata dal Consorzio, cui pure va dato il merito di aver tentato di parare il colpo dopo il planetario j'accuse, è una difesa che non entra nel merito delle questioni sollevate dal NYT, su cui torneremo in seguito. La controffensiva ha limiti intrinseci ma anche alcuni elementi di bontà comunicativa: in primis, è stata affidata a un cartone animato destinato sia al pubblico italiano che a quello anglofono (qui) - ed era essenziale, visto il confronto con la capillarità raggiunta dalle slide statunitensi - ma è incentrato sulle normali procedure con cui l'oliva si trasforma in olio DOP, senza affrontare davvero il tema delle sofisticazioni e del loro contrasto, né del business che vi sta dietro. Un filmato didascalico più simile a un tutorial sull'olivicoltura, insomma, sulla falsariga di quei cartoni della serie "Siamo fatti così" cui tanto devono negli ultimi quindici anni gli studenti delle superiori alle prese con volumi e meccanismi altrimenti ben più complicati.

A una decina d'anni dal primo articolo sull'argomento, il NYT lancia accuse forti non direttamente alla DOP in sé, ma a un intero sistema di produzione che finora si è ben guardato dal prendere posizioni serie o comunque diverse dal mostrarsi scandalizzati e stracciarsi - ora - le vesti. Lo stesso Consorzio ha preso le distanze "da una realtà che effettivamente esiste ma che non tocca tutti quegli olivicoltori italiani e toscani che lavorano nel segno della qualità e del rispetto del consumatore". Il quotidiano americano solleva vicende che gli addetti ai lavori italiani già conoscono bene, e di cui diverse inchieste nostrane si sono già occupate. Con ciò non vogliamo sminuire il senso dell'operazione, tutt'altro: anche alla luce della quota di mercato dell'olio made in Italy destinato negli States, va più che bene far capire oltreoceano quali sono i rischi nello scegliere un prodotto dallo scaffale senza troppa attenzione. Il NYT potrebbe magari sforzarsi di dimostrare meglio alcune accuse e di non fare di tutt'erba un fascio, siamo d'accordo, ma la risposta toscana - come surrogato di quella nazionale - è quantomeno blanda, giocosa (mentre il grafico del NYT era drammaticamente serio) ma senza ironia. Fermo restando che un simile atto d'accusa avrebbe avuto ben altro significato, e forza, se fosse stato lanciato da produttori italiani interessati a sollevare il problema.

olio

Assodato che il video con cui il Consorzio Olio DOP tenta di parare il colpo non intacca - se non parzialmente - le accuse, ora sembra difficile che il NYT possa accettare la richiesta che arriva dal Chianti Classico, realtà da 300 soci e una media di oltre 2 milioni di litri di oro verde certificato: "Per dovere di completezza dell’informazione, pubblicare un altro cartoon che, con la stessa iconografia semplice e diretta utilizzata dal vignettista americano, spiega al consumatore del mondo, come e perché è possibile scegliere un olio di origine e qualità certificate e garantite". Passiamo al j'accuse in sé: il NYT ha senza dubbio avuto la possibilità e il coraggio di mostrare il volto di un sistema italiano - sostenuto da compiacenze politiche, sindacali, ecc... -  su cui si muove una parte dell’industria. Il vignettista scrive che "La maggior parte dell’olio d’oliva venduto come italiano non viene dall’Italia ma da Paesi come Spagna, Marocco e Tunisia", il che in fondo è vero. Però, nell'arco di 15 slides, una postilla su chi applica le regole del disciplinare salvaguardando una produzione diversa non ci stava male (così come invece è stato trovato il modo di non inimicarsi le forze dell'ordine illustrandone i tentativi di arginare il fenomeno).

A far infuriare i produttori virtuosi - incluso dunque il Consorzio DOP Chianti Classico - è forse una slide su tutte, quella che dice "Le bottiglie sono etichettate come olio extravergine d’oliva e marchiate con il made in Italy degno di rispetto in tutto il mondo. (curiosamente questo è legale, anche se l’olio non viene dall’Italia)". Secondo il New York Times, dunque, sarebbe legale importare olio extravergine di oliva da Marocco, Tunisia, Turchia e altri Paesi extraeuropei, truccarlo con miscele di oli sofisticati ed etichettarlo impunemente come made in Italy. In effetti la legge sulle etichette dice altro e vieta espressamente di indicare con la dicitura “Prodotto in Italia” un olio proveniente anche in minima percentuale da altri Paesi, specie se extracomunitari. Il NYT, in questo caso, ha fatto confusione con un altro fenomeno, l'acquisizione - avvenuta negli anni passati - di quasi tutti i grandi marchi dell’olio da parte degli spagnoli per sfruttare la nostra buona reputazione nel mondo di grandi produttori oleicoli. Basti pensare che colossi come Bertolli, Carapelli e Sasso appartengono alla multinazionale spagnola Deoleo: gran parte della loro produzione arriva da mix di oli comunitari (Spagna, of course) ed extracomunitari, poi imbottigliati in Italia. Ma ciò non viene affatto nascosto: se anche hanno nome italiano, sull'etichetta è riportato che non si tratta di "olio prodotto in Italia da olive coltivate in Italia” né si parla di "100% Prodotto Italiano".

Altro problema, non direttamente connesso alla qualità dell'olio ma tale da incidere in maniera significativa sull'argomento, è quello degli oliveti italiani e della loro diffusa diseconomicità. Se è vero che le piante di olivo connotano da sempre il paesaggio rurale di molte regioni italiane, la struttura stessa degli oliveti contribuisce a portare in perdita l'attività. Gli alberi sono senz’altro suggestivi e longevi, ma la scarsa densità di piante per ettaro e le lavorazioni in gran parte manuali fanno si che la loro gestione sia estremamente costosa ed inefficiente, in confronto ad oliveti intensivi (con 1600 piante per ettaro, disposte a filari). Tuttavia, se i puristi del paesaggio e le norme che lo vincolano impediscono espianti per far posto a impianti più moderni e remunerativi, gli oliveti finiscono per essere trascurati e abbandonati. Per non parlare dell’effetto collaterale, quello di proprietà che vedono crollare vertiginosamente il loro valore e di economie territoriali che si impoveriscono inesorabilmente.