I diritti sulle opere d’ingegno sono un diritto sacro. La lesione dei diritti commerciali è un dolo che va perseguito. Non si discute. Ma siamo sicuri che il male dei mali sia riscontrabile nella pirateria? Siamo sicuri che la repressione sic et simpliciter sia l’unica soluzione?

Pirateria sito

Parliamo di cinema. 500 milioni di euro in totale. Questo è il danno che la pirateria arreca al cinema italiano. Il 12% dei film è visibile online prima dell’uscita in sala, e l'84% dei film è già illecitamente in rete entro il primo fine settimana di uscita nelle sale. Questi sono dati inoppugnabili. Ma questa riflessione deve finire qui e così?

Qualche anno fa il Gesellschaft Für Konsumforschung, la più importante società tedesca di analisi di mercato, meglio nota come GFK, realizzò uno studio sulla pirateria online. L’analisi era commissionata dai produttori cinematografici tedeschi. Si voleva capire quali sarebbero state le modificazioni del consumo cinematografico in sala all’indomani dell’arresto degli amministratori di Kino.to, il più importante tra i siti tedeschi tra i fornitori di link per la visione di film in streaming.

I risultati del rapporto diventarono una sorta di leggenda. Una leggenda tra i pirati. Non vennero mai pubblicati, ma qualcosa trapelò. Il rapporto giungeva alla conclusione che la chiusura del sito aveva sì modificato il mercato cinematografico, ma nel senso che gli spettatori in sala erano diminuiti. Diminuiti perché la visione dei film in streaming serviva efficacemente da volano al consumo, da altoparlante pubblicitario. Il rapporto, mai pubblicato, è qui tra le mie mani, insieme a un altro, frutto di una ricerca congiunta tra la ISM (International School of Management Campus München) e l’università di Copenhagen.

Questo lavoro vuole studiare le ripercussioni di mercato conseguenti alla chiusura di Megaupload, il più grande dei motori, all’epoca, della pirateria audiovisiva. Il sito fondato dal guru/boss, gran cialtrone ma assai creativo e volitivo, Kim Dotcom. Il sito è stato chiuso dall'FBI nel 2012 per una lunga lista di infrazioni di vario tipo e genere delle leggi federali. Megaupload (oltre a infettarvi il pc di virus e malware di ogni genere, ma fatti vostri) vi permetteva di fornirvi a piene mani di film e musica senza pagare niente a nessuno. Questa macchina sfrontata generava, da sola, il 4% di tutto il traffico dati online. Una sorta di libera repubblica della pirateria. Con le manette a Megaupload, vendita e noleggio di film digitali “legali” hanno visto un incremento quantificabile tra il 4 e il 10%, e  gli utenti, orfani del sito, invece di spostarsi su altre piattaforme di scambio dati illegali, hanno optato per un più tranquillo acquisto on line. Ma attenzione, tutto ciò è accaduto in quei paesi in cui Megaupload era meno usato, aveva scarso appeal, e godeva di cattiva fama sociale. In altri paesi, più pirateschi, la riconversione del pubblico è stata assai minore.

Lo studio di cui sopra ha certificato il recupero delle vendite, ma ha anche messo in evidenza un fenomeno sul quale riflettere.  Mentre i film frutto di grandi produzioni e spalleggiati da congrue e onerose strategie di marketing pubblicitario con la chiusura del sito hanno incassato di più, la stessa cosa non è accaduta per i film meno commerciali. In generale il cinema indipendente, quello con le spalle meno larghe, quello dei giovani registi non ancora a ruolo a Hollywood, e quello più sperimentale – in poche parole il cinema con meno sale a disposizione, e nel bene e del mane più autoriale e che fa da vetrina agli autori del futuro – con la chiusura di Megaupload ha perso spettatori e incassi.

Ebbene, la visione gratuita online, piratesca e illegale, faceva da fisiologica campagna pubblicitaria. E’ l’assioma del passaparola – uno dei cardini del consumo nell’industria culturale. In poche parole: la morte della condivisione gratuita online può aiutare il cinema, ma solo un certo cinema, quello che è già di per se stesso blindato e protetto. E l’altro? Quello non implicato nei grandi bulimici potentati della produzione? E quegli autori che non vedono stampare i propri film in centinaia di miglia di copie, ma solo in migliaia, o centinaia, o decine? Ecco, questo altro cinema – non strategico per le major, ma fondamentale per la germinazione culturale e per il futuro del cinema – con l’oscuramento dei siti di free streaming perde pubblico e potenzialità.

Nel 2010, roba vecchia ma non per questo da buttare,  un rapporto del Government  Accountability  Office (GAO), agenzia indipendente di verifica e valutazione del Congresso degli Stati Uniti, sottolineava l’impossibilità di creare un rapporto di causa-effetto tra streaming libero e perdita di ricavi dell’industria cinematografica. E se torniamo al 2013, e se vogliamo analizzare la tipologia dei film maggiormente scaricati illegalmente negli Stati Uniti, ci rendiamo conto, in termini incontrovertibili, che tra i dieci film più scaricati da siti pirata nessuno è, invero, disponibile in streaming legale a pagamento, che solo 3 sono  noleggiabili, e che solo 6 sono acquistabili in dvd o blu ray. Ci si potrebbe sentir dire che è ovvio, perché nei primi mesi di uscita di un film produttori e distributori non hanno interesse a rendere fruibile online il film, o a venderlo in supporti digitali, perché devono proteggerne la fruizione in sala; a questa risposta, tuttavia, si potrebbe facilmente obiettare che il marketing strategico di un sistema industriale sano e dinamico non può non rendersi conto che le modalità di fruizione dei prodotti dell’industria culturale sono irreversibilmente cambiate, e che la fruizione ad personam, in streaming o dvd, non può più essere considerata una fruizione accessoria, ma è diventata una fruizione primaria. La distribuzione dei prodotti non può inseguire vecchie fotografie dei costumi sociali, ma deve assecondare, o addirittura anticipare, le trasmutazioni dinamiche dell’immaginario e dei costumi sociali. Se no si va in crisi. E chi va in crisi per la propria miopia imprenditoriale non può cercare nelle manette e nella illegalizzazione l’unica soluzione alla propria incapacità di dare ai consumatori risposte concrete e soddisfacenti.

La pirateria potrebbe, in quest’ottica, essere considerata come una sorta di indice congenito di un male che è altrove. La pirateria cinematografica come un vulnus che si trova a riempire gli ingenui e deludenti vuoti di un sistema di offerta non in grado di soddisfare non più la domanda – che non è mai una – ma le molteplicità delle domande di consumo.

D’altro canto “il pubblico” è un insieme molecolare che si attiva in base a stimolazioni psicologiche e culturali di vario tipo e genere. Il pubblico non è mai “dato”, è solo relativamente prevedibile, ed ogni qual volta si presume di averlo previsto –mediante le tecniche di previsione strategica e psicografica, con azioni di marketing dei valori di consumo – puntualmente questo insieme astratto che è il pubblico si dimostra in grado di poter felicemente eludere qualsivoglia arrogante certezza previsionale dei produttori e degli emittenti dell’industria culturale. Il pubblico c’è e non c’è.

Chi si occupa di sociosemiotica, di sociologia e di mass-mediologia, con nozione di causa, sa che la maggiore autodichiarazione di stupidità è quella che concerne la presunta capacità di prevedere il funzionamento di quella complessissima macchina psicologica che è l’immaginario sociale, quindi il consumo. Il consumo è scientificamente preventivabile, ma è altrettanto scientificamente imprevedibile e sfuggente. Diffidate sempre da quegli idioti che vi dicono “la tv si fa così”, “il giornalismo si fa così”, "il cinema si fa così”. Per ciascuno di questi teoremi ne si possono tirar fuori decine di totalmente contrari ed egualmente efficaci. Un testo progettato per dover piacere, in un certo modo e per un certo tipo di fruizione, spesso può essere rifiutato in toto, semplicemente perché si è stati infelicemente arroganti e dogmatici nel sopravvalutare le proprie presunte capacità di saper intercettare il pubblico.

Ma poi, di quale pubblico stiamo parlando? Ne abbiamo vari. Il pubblico consolidato è quello che andrebbe al cinema sempre e comunque. Il pubblico potenziale, invece, è quello che necessita di sovrastimolazioni non tanto pubblicitarie, quanto relazionali. Questo pubblico si attiva attraverso gli snodi dell’opinion leadering, ovvero del passaparola, o dell’interessamento al consumo di prodotti per contiguità con figure sociali di riferimento (amici, parenti, ecc.)  che in un modo o nell’altro ne “garantiscono” la qualità. Questo pubblico di secondo tipo è quello che rappresenta “l’incasso mancato” dovuto dalla scomparsa dei film in libero streaming.

Ergo, combattere la pirateria vuol dire impedire il potenziale accesso in sala di questo immenso spaccato di pubblico. Ergo, invece di combattere alla cieca la pirateria, cerchiamo di capirne la funzione di consumo, usiamola come stimolo alla transizione delle tecnologie di mercato, e rubiamole spettatori – partendo dal presupposto che i pirati, da sempre, hanno interpretato lo spirito del tempo meglio degli eserciti regolari. Invece di arrestarli bisogna arruolarli. Capire così, felicemente, che il pubblico di un tempo non esiste più.

Non è una questione di ideologia delle liberalizzazioni a tutti i costi, ma è una questione di buon senso imprenditoriale.