Includendo anche l’IVA, dal primo gennaio i quattro quinti del prezzo di vendita delle e-cig se ne andranno allo Stato. Può un settore produttivo in espansione reggere a una simile stangata?

Non è facile fare impresa in Italia. Questo è risaputo. Gli ultimi in ordine di tempo a doverne prendere atto, in maniera decisamente brusca, sono stati gli attori della filiera delle sigarette elettroniche. Un esempio di scuola di come il repentino passaggio dall’assenza di regolamentazione ad una regolamentazione contraddittoria, invasiva e vessatoria può mettere in ginocchio un intero comparto produttivo, peraltro in espansione.

Le sigarette elettroniche hanno vissuto il loro "boom" in Italia nel corso del 2012: da 500 a 1500 negozi nel giro di 12 mesi, rispetto al 2011, per un fatturato complessivo di 350 milioni di euro. Un newcomer con forti prospettive di crescita, che ha fatto tremare i Monopoli di Stato. Così, già da inizio anno, si è cominciato a discutere su come equiparare il trattamento delle sigarette elettroniche a quello dei prodotti a base di tabacco. Se i primi tentativi sono andati a vuoto, quello del maggio scorso è andato a segno, complice la disperata ricerca di fondi per non dover ripristinare l'IMU sulla prima casa e (cercare di) evitare l'aumento dell'IVA al 22%.

La doccia gelata è arrivata con il decreto legge sul lavoro, che ha introdotto una tassa sul consumo del 58,5% tanto sulle sigarette elettroniche, quanto sui loro accessori (in pratica, quattro quinti del prezzo di vendita vengono semplicemente girati allo Stato, se consideriamo anche l'IVA). Di più, sono stati estesi al comparto delle e-cig tutti gli obblighi vigenti per i produttori di tabacco, dalle procedure burocratiche ai divieti di pubblicità. Nonostante le norme entreranno in vigore a partire dal 1º gennaio 2014, l'effetto deleterio della nuova tassa è stato subito scontato dal mercato. «Il consumatore medio di sigarette elettroniche si è avvicinato a questo nuovo prodotto perché è più conveniente da un punto di vista economico. È bastato l'annuncio di questa tassazione spropositata per creare il panico nel nostro settore. Il 58,5% di tassazione sul prezzo di vendita non rischia di ammazzare questo mercato, lo sta già ammazzando», afferma con durezza Massimiliano Mancini, presidente dell'Associazione Nazionale Fumo Elettronico (Anafe), a margine dell'assemblea tenutasi a Roma il 27 settembre scorso.

E i dati suggeriscono l’arrivo di tempi molto duri: Ovale, uno dei principali produttori e importatori italiani, ha dichiarato di aver già subito una riduzione pari al 50% del fatturato, che arriverà secondo stime della stessa società all'80% a fine anno. In soldoni, senza questa improvvisa decisione «lo Stato avrebbe continuato ad incassare, soltanto dal gruppo Ovale, tra i 60 e i 70 milioni di euro tra Iva e tasse varie. Ora quella cifra probabilmente si ridurrà a pochi milioni di euro», commentano fonti della società. E non si tratta solo di un problema di mancate entrate. Quello delle sigarette elettroniche è un mercato molto giovane, anche dal punto di vista di chi ci lavora: l'età media di chi lavora o gestisce un negozio di e-cig è di 28 anni e mezzo, mentre quella di chi le produce o importa è di circa 35-36 anni.

La posizione italiana in materia di sigarette elettroniche, in un certo senso, rientra in una tendenza generale che tende all'equiparazione fra e-cig e sigarette tradizionali, ma solo da un punto di vista fiscale. Non è ancora stata fatta chiarezza su come debba essere considerato questo nuovo prodotto. I 27 Paesi dell'UE non hanno ancora definito una posizione comune in merito: l'Italia è fra i nove Paesi (fra cui Regno Unito e Spagna) che non hanno ancora una legislazione chiara, mentre 14 Paesi (tra cui Francia e Germania) hanno scelto di equipararle ai medicinali. «Ma le sigarette non curano – spiega Mancini – noi stessi abbiamo più volte ribadito che la sigaretta elettronica, semplicemente, fa meno male delle sigarette normali, perché non ha le circa quattromila sostanze cancerogene presenti nelle seconde, ma un minimo di impatto sulla salute ce l'ha comunque, dal momento che contiene nicotina».

L'UE sembra aver colto questa critica: l'8 ottobre scorso il Parlamento europeo ha accolto una bozza di direttiva in proposito, in base alla quale le sigarette elettroniche andranno equiparate nei trattamenti alle sigarette, «a meno che siano presentate come contenenti proprietà curative o preventive» (nel qual caso si applicherebbe la normativa sui medicinali). La bozza però è ancora lungi dall'essere definitiva e, trattandosi di direttiva, una volta approvata ci sono altri 18 mesi di tempo per i Paesi membri per recepirla.

Al di là di come le si vogliano considerare, una regolamentazione chiara ed equa sulle sigarette elettroniche serve, subito. E che abbia un minimo di prospettiva: queste misure inutilmente punitive non fanno altro che dimostrare, da un lato, la disperazione di un Erario che sta letteralmente raschiando il fondo del barile; dall'altro, la pervicace indifferenza per gli effetti di lungo periodo (in questo caso neanche tanto lungo) di un’impennata tanto rapida dell’imposizione fiscale. In ballo ci sono fra i 4000 e i 5000 posti di lavoro, fra cui molti piccoli negozianti, spesso anche alla loro prima esperienza imprenditoriale e che adesso si trovano di fronte alla prospettiva di dover chiudere l’attività.

E le norme previste dal decreto risultano ancora più assurde, se si pensa che quello delle e-cig potrebbe rappresentare un bel business anche per i tabaccai. D'altronde, lo stesso presidente della Federazione Italiana Tabaccai, Giovanni Risso, aveva dichiarato lo scorso febbraio a Repubblica: «i Monopoli di Stato non sono in grado di dirci se possiamo vendere sigarette elettroniche oppure no. E noi non sappiamo come regolarci». Appunto.