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Le recenti vicende della RAI - con la sfiducia al DG Campo Dall'Orto da parte dei suoi stessi danti causa - tornano a dimostrare una verità assolutamente auto-evidente e pure pervicacemente negata: finché l'editore della RAI sarà politico, sia esso il Governo o il Parlamento, a prescindere dal sistema di governance e dalla qualità degli amministratori, la vita della più grande industria culturale del Paese rimarrà ostaggio dei partiti e rimarrà al centro della contesa politica per il comando di quell'immenso "produttore di consenso" che sono i programmi, non solo giornalistici, della radiotelevisione pubblica.

I partiti non usciranno mai dalla RAI finché la sua proprietà sarà del Tesoro o di qualunque altra istituzione dello Stato e alla logica lottizzatoria che ispira pervasivamente tutte le decisioni di Viale Mazzini e di Saxa Rubra non si potrà apprestare rimedio finché l'organo di governo - il Cda - e quello di controllo - la Commissione di Vigilanza - rifletteranno i rapporti di forza del mondo politico. Il fatto che in altri Paesi, con altra esperienza e "cultura del pubblico", esistano tv di Stato che funzionano in modo economicamente più efficiente e politicamente meno belluino non dimostra affatto che la RAI, volendo, potrebbe diventare la BBC. Dimostra l'esatto contrario: che la RAI non è la BBC e non lo potrà mai diventare.

Peraltro, oggi non esiste nessuna ragione, né storica, né culturale, né tecnologica per cui il servizio pubblico di informazione debba continuare a essere affidato a un monopolista statale e non possa, come molti altri servizi pubblici, essere assegnato con procedure di mercato a operatori privati. La privatizzazione della RAI - ovviamente rispettando criteri antitrust e evitando la concentrazione in capo a un solo editore del controllo di molte concessionarie nazionali - non comporterebbe solo una significativa riduzione della pressione fiscale, ma sarebbe l'unica misura in grado di impedire che la RAI rimanga, come inevitabilmente è, un fattore di inquinamento della vita democratica e di distorsione del mercato dei media.

Lo stesso concetto di servizio pubblico - qual è il servizio pubblico che oggi i media privati, pagati dalla pubblicità, non assicurano gratuitamente ai radio-telespettatori? - va ormai pesantemente ridimensionato rispetto agli albori della storia della tv, in cui alla RAI è toccato di completare il processo di unificazione culturale del Paese e di "rifare gli italiani" dopo una guerra che aveva disfatto l'Italia. Di tutti i canali della RAI, proprio le tre reti generaliste, su cui si accende più violentemente la contesa per il comando, sono le più lontane da qualunque idea di servizio pubblico e sono del tutto riconducibili alla natura di una normale tv commerciale.

La privatizzazione della RAI comporterebbe inoltre un'apertura complessiva in senso pro concorrenziale del mercato radio-televisivo: oggi il canone, associato al tetto sull'affollamento pubblicitario per la RAI previsto dalla legge Gasparri, è anche un sussidio indiretto al bilancio delle tv berlusconiane e il caposaldo economico-normativo dell'anacronistico duopolio Rai-Mediaset. Purtroppo anche la proposta sulla privatizzazione della RAI appare, nel teatrino della politica, una posizione ideologicamente conformistica, uguale e contraria a quella che difende il feticcio del cosiddetto servizio pubblico a garanzia di un pluralismo lottizzatorio.

Invece di fatto sarebbe un'ottima misura di igiene politica ed economica, una riforma insieme democratica e di mercato in un Paese in cui la tv di Stato non è al servizio né della democrazia, né del mercato.

@carmelopalma