stradedelcibo-quadratoE venne il giorno, come qualcuno ha scritto. Il giorno di Eataly – il colosso gastronomico di Oscar Farinetti – che apre i battenti a Firenze, nel cuore di via Martelli. Un’apertura vissuta e celebrata dopo una gestazione travagliata, fatta di prudenti rallentamenti e improvvise accelerazioni, scandita da un toto-inaugurazione degno di una Disneyland.

Stamattina, puntualmente, tutto è andato secondo copione: la folla, il sindaco, il patron, i presenzialisti, il bodyguard che non sente ragioni, il curioso, lo scettico, l’entusiasta e tutta una sequela di altri “tipi ideali” di weberiana memoria. Il posto è bello, non c’è che dire. L’offerta, varia e interessante. I personaggi cui Eataly ha affidato i gangli della macchina, esperti del territorio e validi professionisti (da Alessandro Frassica a Leonardo Romanelli, passando per il team di Burde). E allora, perché non unirsi al coro di chi stamani lancia proclami di giubilo? Perché non osannare – per citare uno dei politici presenti in via Martelli – “un esempio concreto di fiducia verso il futuro che serve alla nostra Italia”? Per tre ragioni almeno: perché i bilanci si fanno alla fine, perché i primi 3 giorni non fanno testo (nemmeno i primi 30, ma transeat), perché c’è una serie di aspetti che magari sono sfuggiti ai più ma che meritano un accenno di analisi. Da quest’ultimo punto la prima riflessione.

eatalyfirenze

Cibo del corpo VS cibo dell’anima – Vince il primo, senza ombra di dubbio. Nel palazzo di quattro piani dove sorge Eataly c’era, fino a non troppo tempo fa, la libreria Martelli. Caduta sotto i colpi della crisi – ma anche della progressiva idiosincrasia degli italiani verso la lettura – la libreria ha ceduto il passo al colosso della gastronomia, sic et sempliciter. Col risultato che qualcuno oggi guardava con soddisfazione al fatto che l’ex direttore della libreria si è riciclato trovando posto da Eataly a fare il fornaio/panettiere. Un esempio di come oggi la globalizzazione imponga a ognuno una flessibilità estrema, oppure una triste metafora di questi tempi maledetti? Se esiste davvero una mano invisibile (cit. Adam Smith) a regolare questo genere di cose, la scelta tra premiare la pancia o la testa può dirsi compiuta.

Passata la festa, chi gabberà lo santo? – In altri termini, esaurite l’euforia e la curiosità dei primi 30 giorni di Eataly, che succederà? Quando ogni fiorentino sarà andato a fare un giro tra gli scaffali, avrà assaggiato qualcosa e  (chissà) sfogliato un libro, a che frequenza le casse batteranno scontrini? E questi che entità avranno? Facile, oggi, parlare di Eataly-mania: non fosse altro che per curiosità, stazionando davanti alle porte scorrevoli di via Martelli per un po’ si rischierà di incontrare dall’ex compagno di scuola al commilitone, dalla vecchia fiamma all’odiato collega. Tutti, insomma. E poi? Una delle argomentazioni dei fautori delle splendide sorti di Eataly è “nonostante la crisi, il consumatore investirà sui prodotti di qualità”. Secondo me, al massimo, si toglierà uno o due sfizi vagamente italo-etnici: il peperone crusco, i fagioli di Sarconi, specialità d’oltrepò e chicche dalla Magna Grecia. Tutto ok, semel in anno... Al massimo due o tre volte. Quattro se c’è da fare un regalo all’amico gourmet. E poi? Qualcuno davvero modificherà le proprie abitudini alimentari destinando una parte del proprio budget gastronomico per acquistare prodotti di eccellente qualità ma dal prezzo non certo concorrenziale (com’è giusto che sia per i prodotti di eccellenza)?

Residenti e/o turisti? - Entrambi, nelle intenzioni degli organizzatori. Così come lo speravano i manager dell’Hard Rock Cafè. Salvo poi scoprire che i turisti continuano a venire, affascinati dal global-thinking, ma i fiorentini no. Del resto, se voglio mangiare un hamburger e sono disposto a spendere sui 15-20 euro (cioè non la fascia McDonalds-BurgerKing), ho davanti almeno una decina di posti prima di decidere per piazza della Repubblica (l’HRC è in un ex cinema, giusto per condividere un destino comune). Per residenti e visitatori, il meccanismo secondo me non è dissimile da quel circolo vizioso che contraddistingue l’editoria contemporanea. Perché investire su buoni redattori e dare al lettore un prodotto di qualità quando mi basta portare in edicola un prodotto col minimo dello sforzo e della spesa? Salvo qualche illuminata eccezione, oggi quasi tutti scelgono la comoda via del risparmio a scapito della qualità. E il lettore continua a comprare giornali e riviste che spesso valgono meno della carta con cui sono stampati. Se vale per l’editoria, perché non dovrebbe per il cibo?

Ciò non significa che ogni sforzo sia vano, intendiamoci. Significa solo che l’equazione “prodotti di qualità = successo sicuro” non esiste, altrimenti oggi non vedrei validissimi colleghi giornalisti elemosinare una collaborazione. Per il turista, poi, c’è un corollario interessante: siamo sicuri che Wong, Henry, Samir o Jack preferiranno spendere il triplo per portare alla zia oltreoceano un souvenir di Firenze, quando possono bellamente e consapevolmente calarsi in una delle mille trappole per turisti del centro? Anche qui, la differenza è tra il “tipo ideale” di turista che si immagina e quello che effettivamente spesso è. Firenze ha un turismo ancora di massa, spesso basico, non certo di élite. Gente che non batterebbe ciglio se le dicessimo che accanto a piazza della Signoria troverà il Colosseo o il Vesuvio, la stessa gente che prima di chiedere “dov’è il David?” domanda qual è il bus per andare all’outlet, davvero avrà voglia di concedersi un’esperienza gastronomica di alta fascia? I grossi numeri, quelli che determinano il successo o meno di un’iniziativa commerciale, li fanno proprio questi qui.

Giova ribadire: non sono disfattista, solo non mi piacciono i facili entusiasmi. Auguro a Eataly ogni successo, davvero, solo vorrei che quest’iniziativa – come dovrebbe valere per tutte, del resto – sia giudicata per ciò che ottiene e non per ciò che promette. Un po’ come succede (dovrebbe succedere) per i politici.