VOUCHER lavoro

Il referendum della CGIL non chiede la modifica dei cosiddetti voucher, ma chiede di abrogare gli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, cioè di cancellare il lavoro accessorio.

Visto che questo referendum sarà pacificamente ammesso dalla Consulta, a differenza di quello contro il contratto a tutele crescenti e per l’estensione della vecchia “reintegra” in caso di licenziamento illegittimo alle imprese con più di 5 dipendenti, sarebbe il caso che nel governo e nella maggioranza non si illudessero sull’esistenza di una terza via possibile tra la resistenza e la resa.

Un cedimento parziale come un segno di “attenzione” alle richieste della CGIL – la limitazione dei settori in cui il lavoro accessorio sia attivabile, la riduzione della platea dei potenziali prestatori, la diminuzione degli importi massimi remunerabili attraverso i voucher… - non scongiurerebbe che lo scontro politico sul tema, destinato anche dentro il PD non a risolversi, ma a cronicizzarsi, giunga alla conta referendaria.

Come è già stato dimostrato da numerosi precedenti – gli ultimi sul nucleare e sulle “trivelle” – una modifica solo parziale della normativa oggetto di referendum, che non recepisca per intero la richiesta dei promotori, comporta semplicemente che la Cassazione riadatti il quesito alla normativa novellata. Il referendum si terrebbe in ogni caso. Da questo punto di vista, tutti i possibili correttivi non servono a evitare la trappola referendaria.

Inoltre, quanto al merito dello scontro politico, tutti i correttivi, cioè i cedimenti alla propaganda della CGIL, suonerebbero come un’implicita ammissione della natura tossica dei voucher e dell’effetto precarizzante del lavoro accessorio. Il governo e la maggioranza dovrebbero partire dalla realtà, cioè dal fatto che il lavoro accessorio non è un’alternativa al lavoro standard, ma al lavoro nero, che gli abusi riguardano una minoranza di casi e sono concentrati a danno di soggetti particolarmente deboli, privi non solo di redditi dichiarati, ma anche di sussidi sociali.

Per aiutare questi ultimi non serve abolire i voucher, che coprono parzialmente un lavoro nero cui sarebbero comunque condannati, ma occorre prevedere misure di sostegno socio-occupazionale per le persone adulte a rischio di povertà e di esclusione sociale (sul tema rimandiamo a questo articolo di Roberto Cicciomessere).

Cedere, anche solo tatticamente, alla vulgata per cui senza i voucher ci sarebbero più contratti standard equivale ad arrendersi. In Italia è normale che il numero di lavoratori che hanno percepito voucher - 1,4 milioni nel 2015 - sia tranquillamente presentato come un numero di posti di lavoro regolari persi, anche se ciascuno di questi lavoratori ha prestato lavoro accessorio per poche ore o decine di ore ogni anno, in media 63,8.

Si cita il numero di voucher emessi, ovviamente a milioni e milioni, come se testimoniasse di un’epidemia che sta decimando il mondo del lavoro e non al contrario dell’efficienza di uno strumento adattabile agli interstizi di un sistema produttivo che non riesce a produrre tanto “lavoro buono” quanto dovrebbe, perché non riesce a crescere quanto potrebbe, se venissero incise le protezioni, le rendite e le “relazioni” che ne garantiscono l’irriformabilità.

I voucher sono l’ennesima macumba di una politica che affoga l’impotenza nella superstizione. Se in primavera si dovrà celebrare l’ennesimo referendum come un rito magico contro la crisi dell’Italia, sarebbe bene che esistesse un “partito della ragione” disponibile a vincere o a perdere in nome della ragione e che la maggioranza di governo scegliesse di militare dalla sua parte.

@carmelopalma