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La storia di Almaviva Roma è una storia tutta italiana. Una storia di aziende che vivono principalmente grazie ad appalti pubblici, di crisi del settore, di delocalizzazione ma, soprattutto, di un sindacato, la Cgil, che ormai ha perso il contatto con la realtà del mondo del lavoro e sceglie il suicidio (dei lavoratori) invece che un accordo che almeno avrebbe potuto salvaguardare i livelli occupazionali.

Dopo due mesi di trattative il call center ha deciso di chiudere la propria sede romana lasciando a casa 1666 persone. Tutto comincia il 5 ottobre, quando Almaviva annuncia un piano di riorganizzazione che prevedeva la chiusura dei siti di Napoli e Roma.

Colpa della delocalizzazione, ma anche di “gare ad evidenza pubblica bandite o aggiudicate a tariffe del tutto incompatibili con il costo del lavoro, dai casi più volte denunciati del servizio infoline del Comune di Milano e dello 060606 del Comune di Roma, fino alla recente gara per il servizio Recup della Regione Lazio con base d’asta sottostante i minimi contrattuali di qualsiasi contratto nazionale di lavoro”, denuncia l’azienda.

Parte così il tavolo al Ministero dello Sviluppo economico. Per Napoli si riesce a trovare un accordo: licenziamenti scongiurati e altri tre mesi per trattare con l’azienda. A Roma, invece, le Rsu appoggiate dalla Slc Cgil fanno saltare il banco. Viene indetta una consultazione tra i lavoratori, in cui prevale la volontà contraria a quella del sindacato unitario: Almaviva Roma va salvata. Ma ormai è tardi: l’azienda ha già fatto partire le lettere di licenziamento e non si può tornare tecnicamente indietro.

La vicenda di Almaviva Roma è la Waterlooo sindacale, la Caporetto del sindacato più ideologizzato, che ha anteposto la “lotta dura senza paura” alla possibilità di spuntare un accordo, in nome dell’accordo perfetto, per definizione nemico di qualsiasi accordo.

Dopo non aver saputo dare rappresentanza alle istanze dei nuovi “proletari”, vale a dire disoccupati e precari nei tempi della crisi, con Almaviva la Cgil perde anche la rappresentanza delle istanze dei lavoratori, che in questo caso chiedevano più tempo per un accordo.

Un distacco assoluto tra i lavoratori e chi dovrebbe rappresentarli, l’ennesima frattura tra la realtà e l’ideologia dei “senza se e senza ma”, sulla pelle dei lavoratori.