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Ne abbiamo sentite di tutti i colori: “la banca è in procinto di fallire”, “Montepaschi verrà nazionalizzato ”, “tutto dipende dal referendum costituzionale”, “vinca il si o il no, non cambia niente” insomma, anche senza entrare nel merito di tecnicismi astrusi come Liability Management, Bail In e Burden Sharing è difficile raccapezzarsi anche per gli addetti ai lavori. Proviamo a mettere qualche punto fermo per farci un’idea di quel che sta succedendo.

Ad oggi la banca più antica del mondo ha sostanzialmente 3 problemi:

1. Una quantità di crediti deteriorati (di difficile esigibilità) troppo elevata rispetto al totale crediti e, per non farci mancare nulla, accantonamenti non adeguati.

2. Un patrimonio insufficiente rispetto alle necessità di copertura dei crediti deteriorati e alle altre potenziali fonti di perdita.

3. Una struttura operativa che necessita di pesanti interventi di riforma ed efficientamento anche in considerazione dell’influenza che detta struttura ha avuto sui punti 1 e 2.

Il punto 1, in parole povere, vuol dire che su 104 miliardi di crediti verso la clientela, 45 sono stati classificati come deteriorati e, all’interno di questi, circa 28 miliardi come sofferenze (fonte ultima relazione trimestrale). La prima classificazione include tutte le posizioni caratterizzate da una qualche forma di inadempimento rispetto ai rimborsi contrattualmente previsti (debitori in ritardo con i pagamenti) per i quali esiste un’elevata probabilità che il credito possa non essere recuperato integralmente, pertanto occorre accantonare dei fondi a scopo precauzionale; MPS lo ha fatto per circa il 50% del saldo lordo. La seconda categoria, ricompresa nella prima, include i crediti per i quali è accertata l’impossibilità di recuperare integralmente il credito mediante adempimento del debitore ed è necessario ricorrere all’escussione forzosa delle garanzie (su questi MPS ha accantonato il 60%).

Insomma quasi metà dei crediti di MPS hanno una probabilità elevata di non essere recuperati integralmente. Per avere un riferimento, il rapporto tra crediti non performing e totale crediti a circa il 17% per le banche italiane e circa 6% per quelle dell’area euro (Fonte: 2015 EU-wide transparency exercise, EBA). Insomma, troppi crediti cattivi sono una testimonianza del fatto che qualcosa non abbia funzionato a dovere in passato durante la fase di erogazione e che dunque occorra intervenire nei meccanismi che presiedono alla concessione dei crediti per evitare che si ripeta in futuro (punto 3).

Il punto 2 vuol dire che il patrimonio non è sufficiente a far fronte alle perdite attese per il futuro. Per avere un'idea, il capitale indicato in bilancio vare circa 9,6 miliardi a fronte di una capitalizzazione di borsa che attualmente viaggia intorno ai 600 milioni: volendo dare un'interpretazione molto semplificata, ma che rende abbastanza l’idea, potremmo dire che gli operatori dei mercati azionari stimano che le possibili perdite attese per l’istituto possano arrivare oltre i 9 miliardi. Questa condizione è il risultato di una storia di acquisizioni societarie che poi si sono rivelate sbagliate (da Banca 121 ad Antonveneta) e hanno comportato la svalutazione successiva delle partecipazioni, a cui vanno aggiunte le perdite derivanti dai mancati recuperi sui crediti deteriorati e dalla gestione operativa.

In merito al punto 3 si può evidenziare che l’istituto tra il 2011 e il 2014 ha registrato perdite per circa 14,7 miliardi (fonte FinecoBank) ed in ogni caso negli ulgimi 8-10 anni (lo stock di crediti non performing è quasi triplicato dal 2008) ha portato a mettere insieme un portafoglio crediti che per quasi la metà ha elevate probabilità di non essere recuperato integralmente: è evidente che siano necessari degli interventi per fare in modo che l’erogazione avvenga in maniera più oculata e le operations siano in grado di generare profitti e non perdite.

Chiarito qual è il problema di fondo è più agevole comprendere quel che sta succedendo negli ultimi mesi.

Alla fine di luglio 2016, con i risultati negativi degli stress test (verifiche effettuate da ispettori BCE con particolare focus sui crediti deteriorati), la situazione critica dell’istituto diventa conclamata: in uno scenario particolarmente avverso, secondo le stime effettuate dal regolatore, le perdite potenziali conseguite dall’istituto potrebbero essere superiori al patrimonio. Dopo una sentenza di questo tipo, un intervento finalizzato a mettere in sicurezza di MPS era diventato impossibile da procrastinare.

I vertici dell’istituto rispondono quasi immediatamente con un piano straordinario che prevede la dismissione in blocco di tutti i crediti in sofferenza mediante una struttura di cartolarizzazione - trasformazione di asset illiquidi come le sofferenze in titoli negoziabili - e al contempo un aumento di capitale fino a 5 miliardi. L’idea è di affrontare i problemi 1 e 2 in modo radicale dismettendo tutte le sofferenze e provvedendo a reintegrare il capitale dell’istituto per colmare il “buco” scavato da un prezzo di cessione inferiore ai valori di bilancio e dalla necessità di applicare maggiori accantonamenti alla parte di crediti deteriorati non ceduti.

Sulla carta la soluzione potrebbe funzionare, ci sono in campo JP Morgan e Mediobanca pronti ad architettare la struttura e garantire l’aumento di capitale, eventualmente concedendo un finanziamento ponte in attesa del completamento della cartolarizzazione, che prevede fin dall’inizio un ruolo chiave per il fondo Atlante, creatura mitologica voluta dal governo, ma finanziata da banche, fondazioni e enti previdenziali, che era già intervenuta per sottoscrivere gli aumenti di capitale andati deserti di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Tutto a posto? No. C’è una Cassandra, Corrado Passera, che mette tutti in guardia sul fatto che 5 miliardi da chiedere al mercato potrebbero essere troppi e propone un piano alternativo insieme a una cordata di investitori, con ricorso inferiore al mercato a fronte della conversione di obbligazioni oltre all’intervento di anchor investor. Per qualche motivo questa proposta viene ignorata. Passa l’estate e mentre Questio Sgr, gestore del fondo Atlante, è impegnata nell’organizzazione della cessione e valutazione delle sofferenze, ci si accorge che forse i 5 miliardi sono troppi da chiedere al mercato: si sta mettendo mano ai primi 2 problemi, ma non c’è ancora traccia di un intervento che affronti il terzo problema. Tra il 2011 e il 2015 MPS ha chiesto al mercato quasi 10 miliardi che ad oggi sono svaniti, senza un piano industriale credibile che convinca i mercati che “questa volta sarà diverso” i 5 miliardi non arrivano.

Marco Morelli viene chiamato a proporre un piano credibile e, superato qualche imbarazzo iniziale, mette sul campo una ricetta dura fatta di tagli aggiuntivi alle persone e alle filiali e incremento degli impieghi mediante canali alternativi. Nel frattempo il piano è stato rettificato per ridurre il ricorso al mercato, si parla con anchor investor come il fondo del Quatar e si valuta la possibilità di convertire le obbligazioni subordinate (quelle a metà strada tra azioni e obbligazioni vere e proprie). Corrado Passera che quelle cose le aveva dette a luglio riprova a farsi avanti, ma poi abbandona per mancanza di informazioni necessarie a formulare un offerta vincolante.

Si alza l’ombra del referendum, la prospettiva della vittoria del No e della caduta del governo potrebbe compromettere l’aumento di capitale: l’incertezza su chi sarà al governo e sulla posizione che il governo avrà su questa delicata situazione non aiuta chi deve investire nel più critico degli istituti di un mercato di per sè problematico come quello italiano. MPS corre ai ripari e chiede un rinvio della scadenza per completare l’aumento e propone agli obbligazionisti subordinati una conversione volontaria in azioni - non può fare la stessa offerta ai piccoli risparmiatori perché manca l’autorizzazione della Consob, in quanto i profili Mifid dei privati potrebbero non essere compatibili con l’acquisto di azioni.

Il No vince e il governo cade. Siamo ai giorni nostri. Le chances di portare a termine la “soluzione (non esattamente) di mercato” per Montepaschi si assottigliano, le banche non garantiranno il collocamento, sono stare raccolte adesioni per conversione di obbligazioni per circa un miliardo e diventa necessario chiedere anche ai retail il medesimo esercizio previo assenso della Consob. Chi detiene questi titoli, scambiati intorno al 50% del valore nominale può scegliere tra convertirli in azioni al 100% del valore nominale - realizzando in teoria un guadagno teorico immediato, ma accettando il maggior rischio di detenere azioni - e rifiutare la conversione con il rischio che, nel caso l’aumento della banca non vada a buon fine, la conversione potrebbe avvenire in modo forzoso al valore di mercato.

La BCE ha negato la possibilità di un rinvio e MPS attende il via libera della Consob per giocare la carta della conversione per gli obbligazionisti subordinati retail: se riesce ad ottenere 2 miliardi, da aggiungere al miliardo già impegnato dagli investitori istituzionali allora dagli anchor investor come QUIA (fondo sovrano del Quatar) potrebbe arrivare un altro miliardo. Raccogliere sul mercato un residuo intorno al miliardo, stante l’impegno di obbligazionisti per 3 miliardi e anchor investor per 1 potrebbe essere fattibile.

Il governo Gentiloni ha tuttavia già pronto un piano B (in realtà ereditato dal suo predecessore) che prevede l’intervento del Tesoro a garanzia della parte dell’aumento di capitale che non verrà sottoscritta dal mercato o - nell’ipotesi che l’operazione salti completamente - a gestire la risoluzione dell’istituto. Nel primo caso scatta il meccanismo del burden sharing: le obbligazioni subordinate vengono forzosamente convertite in azioni; nel secondo si avvia un processo di bail in che, nell’ordine azzererebbe azioni, obbligazioni subordinate, obbligazioni ordinarie fino ad arrivare alle giacenze dei depositi bancari eccedenti i centomila euro per singolo conto.

Come finirà questa telenovela, lo scopriremo solo vivendo. Le probabilità che si riesca a raggiungere l’allineamento astrale necessario a completare l’aumento senza l’intervento dello Stato non sono molto elevate. Quello che è certo è che il finale potrà variare da “abbastanza triste” a “decisamente tragico” perché il lieto fine, tollerando la gestione politica di questo istituto di credito, ce lo siamo giocato diversi anni addietro.